“Suo marito mi confidò: non riusciranno a fermarla”
«Fu il suo compianto marito a spiegarmi quanto lei è forte: ‘solo uccidendola la fermeranno’. Adesso la straordinaria little lady ha vinto». Il professor Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto, Nobel per la pace, parla commosso.
Professor Wiesel, come è riuscita questa piccola donna a diventare la grande lady della democrazia?
«Cominciai a capirla tanti anni fa, quando suo marito venne a trovarmi. Mi narrò tutto di lei prigioniera, della sua lotta. Mi disse: è in pericolo, possono ucciderla pur di fermarla. Mi chiese di battermi per il Nobel. ‘Fu così’, mi diceva, ‘per Walesa, Mandela, le madri argentine. Furono salvati dal Nobel: uccidere un Nobel per la pace è troppo anche per la più spietata dittatura. Come possiamo fare per aiutarla? ‘ Cominciò così».
E come continuò?
«Cominciai a seguire la sua lotta, da quel momento non smisi mai. La sua vittoria incoraggia tutte le persone che lottano per vivere liberi da pericoli e oppressione, è un evento enorme per tutti».
Il mondo vide Walesa o Mandela come coraggiosi disperati. E la lady?
«Lei ha saputo vincere contro una dittatura forse più brutale. Ma la differenza è anche nella geografia. La Birmania è lontana, semisconosciuta, da decenni è difficile entrarvi. Per i generali era più facile vincere con l’isolamento. La scelta vincente, venuta dal talento di combattente e di politica di questa straordinaria piccola grande donna, è stato anche diventare una sfida di statura mondiale».
Fisicamente appare fragile, da dove viene la sua forza?
«Lei crede che il destino umano è nelle nostre mani, non possiamo permettere a nessun dittatore di strapparcelo. Ha sempre mostrato una fortissima fede nel diritto di vivere nel rispetto reciproco e non nella paura. Non piegandosi, ha lanciato il messaggio oltre i Muri della censura. Ha saputo trovare linguaggio e gesti giusti per il messaggio: quella grande eleganza, quel suo stile da lady, per dire a tutti che la fede nella democrazia può sopravvivere per secoli. Il suo popolo non poteva ascoltarla, lei non sapeva nemmeno di essere seguita. Dietro il Muro dell’isolamento non aveva nemmeno un telefono, meno che mai un computer. Nella casa-prigione, non si è arresa».
Dove prende tanto coraggio e tanta intelligenza politica?
«Voglio chiederglielo. L’ho invitata a Washington: nel museo dell’Olocausto voglio conferirle il primo premio intitolato a me. Ma quel lungo periodo in isolamento, lei lo ha usato per imparare. Anni di riflessione strategica su filosofia politica e strategia. Che fare, come lottare. Ha capovolto la situazione: ha portato il tempo dalla parte sua, non dei dittatori. La sua mente non si è fatta prendere prigioniera, le peggiori dittature non possono incarcerare le anime. La forza le viene anche dalla memoria del padre. Lei viene da una famiglia di combattenti. Ora è simbolo mondiale, forse più di Gandhi e Walesa perché era isolata ma il mondo è più globale. La mia fede nella giustizia è tornata. Adesso spero che lei diventi premier. Il mondo democratico deve sposare la sua causa. Imparare da lei a non arrendersi mai».
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