by Sergio Segio | 27 Aprile 2012 8:17
MILANO – Non proprio un esperto di sanità . Meglio dire così: un uomo capace «nella frequentazione da ormai 34 anni di tutti i meandri regionali per quanto riguarda la sanità e sì, so cosa bisogna fare, come intervenire, quando intervenire». Per descrivere chi è esattamente Pierangelo Daccò, l’uomo arrestato per il crac del San Raffaele, raggiunto da una nuova ordinanza per le consulenze della Fondazione Maugeri, basta usare le parole dello stesso Pierangelo Daccò. Con questa definizione, il faccendiere vicino al governatore della Lombardia Roberto Formigoni ha giustificato ai magistrati i 70 milioni di consulenze ottenute dalla fondazione Maugeri. Carte false, sostengono i pm Orsi, Pedio, Ruta e Pastore, nel capo d’accusa contro Daccò.
Daccò, per spiegare meglio il concetto, al gip Vincenzo Tutinelli, dal carcere di Opera – nell’interrogatorio successivo al mandato d’arresto appunto per l’inchiesta-Fondazione Maugeri – aggiunge di aver avuto anche referenti precisi al Pirellone. Erano «il direttore generale» Carlo Lucchina (braccio operativo del governatore in campo sanitario), e qualche volta i vari assessori alla Sanità che si sono alternati in questi quasi vent’anni di gestione Formigoni. «Anche a lui (Lucchina, ndr) davo un pacco a Natale e la colomba a Pasqua – ha spiegato Daccò – . Addirittura c’è stato un anno o due che li ha rifiutati perché c’era aria che non si potesse più dare il pacco con dentro il vino, i fichi secchi, il panettone».
«Integerrimo», lo interrompe il gip. Daccò: «Lucchina me l’ha mandato indietro due anni, gli altri no. Poi dopo l’ha ripreso. Ha visto che insistevo anche lì». Alla domanda se abbia mai «dato denaro a soggetti collegati alla Regione Lombardia?», Daccò però è preciso: «Io, in vita mia non ho mai dato denaro a nessuno, se non purtroppo a una persona che non c’è più». Il riferimento sembra andare a un senatore del Pdl recentemente scomparso, Romano Comincioli, di cui l’imprenditore parla quando vanta referenti importanti «a livello centrale»: «Io non avevo necessità del ministero. Quando avevo bisogno di qualcuno, avevo referenti politici importanti a Roma e potevo rivolgermi a loro. In particolare, negli ultimi anni, adesso purtroppo è andato in cielo anche lui, era il senatore Comincioli del Pdl e altri, avevo Miccichè, che è un amico; Pippo Fallica, che è un altro amico». Daccò cita anche l’ospedale «Fatebenefratelli» e la «clinica di Ligresti» quando, incalzato ancora dalle domande di gip e pm, indica da quali «altre strutture operanti nella sanità in Lombardia o altrove» abbia «ricevuto altro denaro». Col primo racconta di avere collaborato nel 2002, e non specifica per quale cifra, mentre dalla non meglio definita clinica di Ligresti avrebbe ricevuto nel 1990 «ottanta milioni» di lire «per una cosa che non mi ricordo». Poi, più avanti, rammenta: «Sì. Sì. E poi c’è stata una, come dire, uno spot per il dottor Antonio Ligresti, quando c’è stato il problema della camera iperbarica al Galeazzi». Il «problema» è stato il drammatico incendio che il 31 ottobre 1997 ha ucciso dieci pazienti e un infermiere. Incendio per il quale l’ex proprietario dell’ospedale, Antonino Ligresti, è stato condannato a 3 anni di carcere per concorso in omicidio colposo plurimoe per carenza in materia di sicurezza.
Un punto a favore della difesa dell’ex consulente sanitario, ieri, è comunque arrivato dalla Corte di Cassazione. Il legale di Daccò, Giampiero Biancolella, aveva infatti contestato l’arresto del suo cliente per il crac del San Raffaele.
«Manca la prova – hanno però scritto i giudici di Cassazione nella motivazione della loro decisione – della consapevolezza che l’indagato fosse a conoscenza della bancarotta». In questo modo, il ricorso è stato accolto e ora dovrà essere nuovamente discusso davanti al tribunale del Riesame.
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