by Editore | 6 Aprile 2012 6:47
ROMA – Camusso, considera un successo della Cgil la nuova versione dell’articolo 18?
«È il risultato della determinazione con cui abbiamo posto il problema che di fronte ai licenziamenti illegittimi ci fosse la medesima sanzione e che rimanesse la funzione deterrente del reintegro. Ma è anche il risultato di una grande mobilitazione dei lavoratori e di un Paese che non ha condiviso gli orientamenti del governo e della Confindustria».
La Cgil ha proclamato lo sciopero generale. Ora lo ritirerete?
«Avevamo proclamato sedici ore di sciopero alcune delle quali sono già state effettuate. Deciderà il Direttivo, convocato per il 19 aprile, come proseguire la mobilitazione alla luce della novità importante che riguarda il reintegro. Però ci sono altre cose che ci preoccupano. Il governo, per esempio, aveva preso un impegno formale, era pure scritto nel testo approvato dal Consiglio dei ministri, di cancellare le associazione in partecipazione oltre il primo grado di parentela. Questa cosa non è stata fatta. E assume quasi un valore simbolico».
Quante delle 46 tipologie di contratti atipici sono state superate?
«Sono rimaste sostanzialmente tutte. A dimostrazione della distanza tra gli annunci del governo e le decisioni davvero prese. Trovo particolarmente grave che sia stato detto che i giovani sarebbero stati al centro della riforma e invece sono stati solo usati, come sulle pensioni».
Non è una riforma per i giovani?
«La cosa positiva è che dopo quasi vent’anni si inverte una tendenza e si blocca l’estensione di tipologie contrattuali precarie, ma c’è un abisso tra le aspettative e le decisioni concrete».
Alla fine, tornando all’articolo 18, è stato il Pd a “salvare” la Cgil. In fondo è stato Bersani a ottenere dal governo quello che sul tavolo con le parti sociali era sembrato impossibile.
«Credo che ci abbia salvato la mobilitazione dei lavoratori con tutto il rispetto e la riconoscenza per la battaglia condotta dal Pd. Ma è stato il premier Monti a ricondurre tutto sull’articolo 18. Ricordiamoci che è stato l’unico punto sul quale ha voluto il parere delle parti, con l’intento, a mio avviso, di dimostrare che non ci stava soltanto la Cgil. E, invece, c’è stata una reazione del Paese diversa da quella che il governo si attendeva. Il clima non è più quello del dopo pensioni e per la prima volta il governo ha dovuto fare i conti con i sondaggi che registravano un calo dei consensi».
La Confindustria ha attaccato la riforma. Si metta nei panni degli industriali: avevano concordato una soluzione che è stata poi cambiata non in Parlamento bensì in un vertice tra il governo e i leader dei partiti di maggioranza. Le sembra un metodo accettabile?
«Premetto che questo metodo costituisce proprio la conferma di quanto si voglia creare una crisi della rappresentanza sociale. È un tema delicato e molto serio. Ma non è quello che ha sollevato la Confindustria. Gli industriali chiedono solo licenziamenti più facili. La verità è che c’è un sistema industriale ripiegato su se stesso, che non investe più, che continua a pensare di poter essere competitivo riducendo i costi e peggiorando le condizioni di lavoro».
Resta il fatto che il premier Monti ha detto che i casi di reintegro saranno “estremi e improbabili”.
«È un tentativo di ridimensionare il passo indietro che ha dovuto fare. Un modo per dire che la modifica non è così rilevante».
Lo considera davvero un passo indietro significativo?
«Certo che lo è. Monti aveva teorizzato, anche all’estero, che tolto il reintegro c’era la liberalizzazione dei licenziamenti. Ora, invece, c’è il reintegro».
Perché è così importante il reintegro?
«Perché ha un effetto deterrente».
Crescerà l’occupazione grazie alla riforma?
«No. Questo è il vero dissenso con il governo Monti. Nel cui operare c’è l’idea, comune a una parte della destra europea, che una volta fatte le cosiddette riforme strutturali queste porteranno con sé un luminoso e radioso sviluppo. La verità è che il nostro paese non cresce da quindici anni. Non basta creare un contesto favorevole, bisogna indicare la direzione in cui si vuole andare. Servono le scelte di politica industriale. In mancanza di risorse si poteva almeno definire un piano energetico a sostegno del sistema produttivo che oggi perde di competitività anche per il costo maggiore dell’energia che è costretto a sostenere».
Saranno sufficienti i due miliardi di euro circa per la riforma degli ammortizzatori sociali?
«Ciò che ci preoccupa sono anche le fonti dalle quali il governo punta a ricavare le risorse. Dobbiamo capire meglio, ma ci sono aspetti che ci lasciano perplessi come i tagli per l’Inail».
D’ora in poi, però, tutti i lavoratori saranno tutelati dai nuovi ammortizzatori sociali.
«Non cambierà nulla rispetto alla situazione attuale. L’estensione delle tutele riguarda solo gli apprendisti. È l’unica novità . Per i lavoratori discontinui non c’è niente. Il dualismo nel nostro mercato del lavoro rimane sostanzialmente inalterato. L’obiettivo di strumenti universali è stato largamente mancato».
Una riformicchia?
«Il fatto positivo è che si inverte la tendenza sulla precarietà . Ma non è una riforma epocale. Non risolve la complessità dei nostri problemi».
Cosa pensa dell’aumento dei suicidi tra i piccoli imprenditori, i disoccupati e i pensionati?
«Fa molta impressione. Mi vengono alla mente i primi anni 80 con i suicidi di lavoratori messi in cassa integrazione. Siamo di nuovo in una stagione nella quale l’assenza di prospettiva si trasforma in disperazione individuale. In questo c’è una responsabilità collettiva. Dobbiamo riaprire uno spiraglio di luce perché non può esserci solo la recessione».
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