Prigionieri nel cerchio maledetto della giustiza manageriale

by Editore | 24 Aprile 2012 6:41

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Come sottolinea Raffaele Sabato nella prefazione all’edizione italiana del nuovo bel libro di Antoine Garapon, Lo Stato minimo. Il neoliberalismo e la giustizia (Raffaello Cortina Editore, pp. 221, euro 21), in Italia, al di là  dei ben noti scontri tra politici e magistratura, «l’istituzione giudiziaria e le stesse professioni liberali operanti nell’ambito della giustizia presentano profili di inefficienza di cui da anni il potere politico non si fa carico». Gli argomenti fondati sull’efficienza, però, hanno sempre un sottile fascino incantatore: tendono a presentarsi come freddamente tecnici, e, quindi, indiscutibili. Quest’indagine di Garapon, già  giudice minorile e oggi direttore dell’«Institut d’Hautes à‰tudes sur la Justice», ben conosciuto nel nostro paese per i suoi studi sui riti giudiziari, ha il merito non solo di indagare sull’impulso riformatore, che dagli anni Ottanta in poi non ha risparmiato le istituzioni della giustizia, insieme a quelle della conoscenza, dell’istruzione, della sanità , del welfare state, ma anche di interrogare proprio quella tanto proclamata efficienza, mirando alla logica unitaria che la sottende. Che è poi quella specifica razionalità  neoliberale, definita da Foucault, nei corsi al Collège de France della fine degli anni Settanta, come la «ragione dello stato minimo»: per nulla un semplice «ritiro» dello Stato, piuttosto una trasformazione delle sue strategie di governo. Una razionalità  che, mentre fa assurgere il mercato a complessivo discorso di verità , si rivela anzitutto come una forma di soggettivazione: il neoliberalismo prova, infatti, continuamente a «produrre» soggetti che interiorizzino la stessa forma impresa, trasformando la «concorrenza» nella propria forma di vita e se stessi in «capitale umano». È questa lettura foucaultiana della governamentalità  che Garapon applica alle istituzioni della giustizia. Emerge infatti, dalla loro trasformazione, l’immagine complessiva di una giustizia manageriale che ha ormai scalzato la solenne giustizia sovrana e quella burocratico-disciplinare. In perfetta rispondenza alla razionalità  neoliberale, nella concezione della pena si afferma il modello restituivo su quello retributivo: non si tratta più di punire, quanto di dar soddisfazione alla vittima, vero centro di gravità  della penalità  neoliberale del danno subito. Il controllo sociale assume tratti sempre più marcatamente preventivi e attuariali. L’imperativo neoliberale della sicurezza richiede di prevedere probabilisticamente chi potrebbe commettere cosa, e di intervenire per evitarlo: nasce una «nuova penologia» statistica, che «omogeneizza e insieme particolarizza». Anche il processo si trasforma da sede di un giudizio in un dispositivo di neutralizzazione del conflitto, lasciato quanto più è possibile alla disponibilità  delle parti, con il giudice declassato a una sorta di agenzia di controllo e di «autorizzazione». Garapon non si limita a descrivere questo processo: ne denuncia anche la sua pretesa totalizzante, il costo immane sia per le garanzie giuridiche che per la dimensione dell’agire collettivo che questa regolazione senza giustizia produce. Il problema, però, sta nella risposta alla domanda politica sul come uscire dal neoliberalismo. Nel passaggio dall’analisi critica della giustizia neoliberale al tentativo di pars construens, il discorso di Garapon si fa più incerto. Se la governamentalità  neoliberale è un controllo sui flussi, allora bisogna ricreare qualche punto fermo, anche solo relativo, che non si sciolga nel loro divenire; se il neoliberalismo stringe in un solo nodo desiderio dei soggetti e norme sociali, bisogna riscoprire uno scarto tra norma e vita. Il senso del progetto moderno potrebbe essere ancora recuperato proprio grazie alla capacità  della democrazia, coniugata ad un liberalismo non neoliberale, di creare distanza: uno spazio pubblico democratico, scrive Garapon richiamando le tesi di Claude Lefort, si costituisce nella capacità  di mantenere uno spazio tra il simbolico e il reale. Dunque, occorre riattivare, se non la tramontata trascendenza del corpo sovrano e statuale, che Garapon dà  saggiamente per irrecuperabile, comunque una quasi-trascendenza dello spazio pubblico. Ma è qui che la sua intenzione di affrontare il neoliberalismo sul suo stesso piano sembra mancare il bersaglio. Davanti alla radicalità  del passaggio dalle forme disciplinari a quelle del controllo, alla radicale immanenza in cui ci muoviamo attraverso i piani della governance contemporanea, senza che alcun «fuori» o «altro» ci sia più realisticamente dato, le sue conclusioni assumo inevitabilmente un certo tono reattivo. Non a caso, proprio in ultimo, spunta Tocqueville, il cui pathos della distanza dalla minacciosa massificazione in cui sarebbe degenerato il «sano» individualismo liberale è la vera radice di questo tipo di «critiche liberali al neoliberalismo», che si appellano al recupero di una qualche forma «classica» di trascendenza della norma sulla vita. Il punto decisivo è qui che il discorso di Foucault sulla governamentalità , anche sulla governamentalità  neoliberale, è irriducibile all’interpretazione univocamente gestionale e attuariale. Il piano della governamentalità , per Foucault, non è mai totalizzante, ma è sempre attraversato dalla resistenza. E questo vale, in fondo, anche per i fenomeni che Garapon analizza: lo sviluppo di forme di giustizia alternative, riparative, di prossimità , sono certo colonizzate dalla logica neoliberale, ma sono anche un segno della ricerca di prassi di produzione di giustizia e di diritto autonome o «autopoietiche», come direbbe il filosofo tedesco del diritto Gunther Teubner, oltre e fuori dalla crisi del progetto moderno. Quando, invece, di Foucault si lascia cadere il discorso sui dispositivi di resistenza e di produzione di soggettivazione attiva (che è esattamente la parte del suo discorso che lo rende irrecuperabile a qualsiasi «liberalismo»), allora, certo, la governamentalità  manageriale e attuariale finisce con l’apparire come un cerchio maledetto, che solo una qualche forma di trascendenza simbolica potrebbe tornare ad addomesticare. Ma Foucault non ha mai smesso di guadare alle capacità  di creazione di vita, che sempre si sviluppano, anche nel cuore stesso della governamentalità  neoliberale. E proprio la crisi del debito, come sottolinea Maurizio Lazzarato nel suo recente La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi), ci dice come la trasformazione dei soggetti in responsabili impresari di se stessi incontri continuamente attriti insuperabili. Solo in questi comportamenti di resistenza e di soggettivazione alternativa, nel vivo dei flussi, del movimento e delle prassi si può provare a produrre, se ci si riesce, un diritto comune non governamentale, non manageriale: non c’è più nessuna distanza possibile, nessuna restaurazione simbolica consentita, nel corpo a corpo tutto reale con il neoliberalismo.

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