Perché in quindici giorni il rischio Italia è salito di 130 punti
Quando tra due settimane il Fondo monetario internazionale pubblicherà le sue stime, si vedrà che non ha cambiato idea. I tecnici di Washington continuano a pensare che l’Italia resterà in recessione per tutto quest’anno e per parte dell’anno prossimo. La brezza di ottimismo che ha percorso i mercati nei primi tre mesi del 2012 non ha impressionato più di tanto il Fmi, che continua a prevedere una caduta del Pil più marcata di quella stimata dal governo: quest’anno attorno al 2,2%, nel 2013 una contrazione attorno allo 0,5%.
Se i prossimi venti mesi andassero così, il cammino verso il pareggio di bilancio nel 2013 diventerebbe un po’ meno credibile. La caduta dell’economia può deteriorare i conti pubblici, ma reagire con un’eventuale nuova stretta di bilancio può accentuare la debolezza dell’economia stessa. Molti investitori hanno smesso di credere che sempre nuove dosi di austerità simultanea possano aiutare l’Europa a stabilizzarsi su un nuovo equilibrio. Al contrario, in questo momento i mercati temono che un eccesso di rigore di bilancio in troppi Paesi allo stesso tempo si stia dimostrando un errore. Ieri la Borsa spagnola è scesa ai minimi da tre anni e i rendimenti sui titoli di Madrid sono saliti dopo che il governo ha annunciato dieci miliardi di tagli alla sanità e alla scuola.
È presto per sapere se realmente le previsioni del Fondo monetario sono corrette. E non ci sono indicatori che dicano che austerità e recessione si stanno già alimentando a vicenda. Ci sono però alcuni pericoli concreti di cui tenere conto: l’avvicinarsi della stagione di versamenti delle nuove imposte sulla casa può per esempio spingere molti, se in difficoltà a pagare, a mettere sul mercato i propri immobili. E una scivolata del prezzo del mattone non sarebbe certo positiva né per le banche, né per l’economia in generale.
Non che in questo momento il governo abbia molte alternative alla linea del rigore. Finché il ritmo normale di crescita in Italia resta sotto al tasso d’interesse da pagare sul debito — come succede da tempo — il debito per inerzia tende a salire rispetto al Pil. L’unica risposta possibile diventa stringere al massimo la cinghia e mantenere un forte surplus di bilancio prima di pagare gli interessi, ma ciò a sua volta frena ancora di più l’economia. Così la spirale può ripartire. La carenza di liquidità nel sistema Italia — i pagamenti in ritardo, il denaro che non circola — si spiega anche con questa severa austerità pubblica e privata.
Dal Giappone negli anni 90, agli Stati Uniti nel 2009, gli Stati sovrani hanno sempre reagito a queste trappole del debito stampando moneta: la banca centrale immette denaro in circolo spingendo il tasso di crescita (inflazione compresa) sopra il tasso d’interesse sul debito, che dunque diventa subito sostenibile. Smette di salire rispetto al Pil. Così stanno uscendo dalle loro crisi di debito sia gli Stati Uniti di Barack Obama, che la Gran Bretagna di David Cameron.
Anche la Banca centrale europea in fondo ci ha provato. L’istituto guidato da Mario Draghi ha mosso un passo in questo senso fra dicembre e febbraio, quando ha creato 1.019 miliardi e li ha prestati alle banche all’1% con rimborsi fissati (al più tardi) tra tre anni. Secondo Ubs, solo il settore finanziario italiano ha in quel momento assorbito dall’Eurotower 260 miliardi di euro. E con quel denaro gli istituti hanno comprato titoli di Stato, riportando in basso gli spread nei primi tre mesi del 2012. Ma non tutto è andato bene, perché il sistema non è perfettamente integrato come quello americano. Nelle condutture del sistema finanziario europeo, riaperte dalla Bce, si sono rapidamente create nuove storture che oggi stanno contribuendo al ritorno della tensione. Ed è successo perché l’Europa finanziaria resta la giustapposizione di diciassette Stati sovrani, priva di un regolatore e di un garante unico. Nell’usare i fondi della Bce, il sistema si è balcanizzato lungo linee nazionali e ormai quasi più nessuno offre credito a entità di altri Paesi: l’euro è diventato la moneta unica priva di un mercato unico dei capitali. Il paradosso è che tutto è successo proprio nell’utilizzare la liquidità della Bce. In Italia per esempio il Tesoro ha garantito quasi 40 miliardi di nuovi bond delle banche private, perché poi queste potessero presentarli in garanzia alla Bce in cambio di denaro fresco. Ma con un sostegno del genere dal governo, gli istituti hanno subito restituito il favore comprando ancora più titoli di Stato di prima; lo stesso è successo anche in Spagna. Secondo il New York Times, l’esposizione delle banche italiane al debito del Tesoro è salita di 54 miliardi e quella delle banche spagnole su Madrid di 68. Il cordone ombelicale fra banche e Stato, già pericoloso, è diventato più stretto: ora i mercati temono che, se lo spread si allargasse di nuovo, le perdite degli istituti sarebbero ancora più forti. Nel 2011 le prime cinque banche italiane hanno perso 28 miliardi per le loro perdite sui titoli di Stato e dunque hanno negato il credito alle imprese, rendendo l’economia ancora più illiquida e contribuendo alla caduta del Pil. Adesso gli investitori temono che lo stesso ingranaggio perverso riparta, dunque fuggono dall’Italia e proprio in questo modo contribuiscono ad avverare i propri stessi timori.
Sono spirali da spezzare prima che si inneschino. Il 19 aprile i Paesi del G20 approveranno un aumento dei finanziamenti di 360-400 miliardi di dollari al Fondo monetario, proprio come rete di sicurezza all’area euro. Anche il Fondo salvataggi europeo, nelle sue varie forme, crescerà entro l’anno a quasi 500 miliardi di euro. Intanto i governi europei nel silenzio generale lavorano a un regolamento anche più rivoluzionario del Fiscal compact, le nuove regole di bilancio: in futuro potranno «raccomandare» pubblicamente a maggioranza che un governo europeo chieda un salvataggio. Ieri su questo si pronunciato Luis de Guindos, ministro delle Finanze di Madrid: «La Spagna non ha bisogno di salvataggi, per il momento». Della sua frase, i mercati hanno capito solo la seconda parte.
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