PERCHà‰ IL CRITICO È UN TRADITORE
Jago, che se ne intende di tradimento, si presenta così: «Non sono che un critico, io». Lo svela a Desdemona, madonna d’ingenuità fatta preda col sussurro reiterato; e a svelare la perseveranza tautologica del tradimento non può che essere un critico, quell’Achille Bonito Oliva che oggi riconsegna alle librerie il suo saggio L’ideologia del traditore. Arte, maniera e manierismo (Electa, euro 35, prefazione di Andrea Cortellessa).
È un libro ormai diventato un classico (la prima edizione è del 1976), ed è un prontuario di decifrazione del potere, una macchina mentale che attraversa il Manierismo – quella “gran maniera” di fare arte nel solco di Leonardo, Michelangelo e Raffaello –fino a farne prefigurazione della realtà che ci circonda.
Il traditore è asimmetrico (“a ‘nfame!”, direbbe con sprezzatura d’avanspettacolo lo stesso Bonito Oliva): l’asimmetria è il “punto di rottura”, e il traditore è colui che sta nel mondo, non lo accetta se non per approfittarne, non agisce e vive nella riserva mentale del linguaggio. Laddove la vicenda umana di Otello è cronaca nera di corna e delitto, la necessità di “lateralità ” di Jago è dramma filosofico, è la messa in scena della modernità , lo spazio che si colma di sola memoria dove «si abita il passato per evitare l’indecenza del presente»
Quella del sistema di Bonito Oliva è una rappresentazione ancora attuale, e il suo testo non soffre dei lapsus dell’intellettualismo da provincia. Mai una volta, infatti, che egli adotti formule tipo “nella misura in cui”, e il ritmo del suo procedere è sincopato, ternario fin dal sottotitolo e asciutto capitolo dopo capitolo; orbo, appunto del tecnicismo strutturalistico che in quegli anni avrebbe annichilito generazioni di studenti muti di fronte all’analisi del testo, agli schemi, ai diagrammi, alle figure retoriche private della loro storia, alla parola espropriata dalla Storia: l’ideologia; il ’77 a venire. L’ideologia del traditore assimila il carico di filosofia con Nietzsche, Hegel e Freud.
Bonito Oliva ritiene che la vicenda esistenziale del “traditore” sia specifica dell’Occidente, dunque una dimensione precipua dell’individualismo. Non arriva ad accogliere con Henry Corbin la taqiyya, ovvero la dissimulazione degli sciiti nella dimensione immaginale dell’Islam persiano, il nascondersi per preservare una verità da svelare nell’altrove poetico, ma perviene a Foucault e Deleuze, l’elaborazione di strutturalismo e post-strutturalismo che è un uso di parola rivelatore di poesia. Ed è il restare al di qua del lirismo heideggeriano, ma anche dell’illuminismo troppo inglese, il mantenere l’attenzione alla parola per una buona traducibilità , che consente a Bonito Oliva di agire forte di una corazza stilistica, come nell’allegoria di Venere, Amore e Tempo del Bronzino.
I quaranta capitoli procedono tutti per tre, ciascuno e ognuno intitolato con tre concetti (“Morte, rischio, sovranità ” è quasi un manifesto), in un’epifania della “terza persona”. Se nel due c’è lo specchiarsi della realtà nella rappresentazione, pur con l’omaggio della pittura alla vita, con l’avvento di Copernico, col rimpicciolirsi del cosmo, con lo svanire dell’aura magnifica dell’infinito si precipita nella vertigine scespiriana “di un sogno fatto dentro un sogno”. Nelle due esatte metà dell’esistenza che si frantumano nel significato del tutto c’è il tre della rottura manierista. Il raglio dell’I-o non può uscire di metafora. Se prima l’uomo era al centro della natura, adesso è il Principe a essere il fondamento della Corte. Non senza avere accanto un disturbatore laterale, una prospettiva “strabica” densa di bizzarria ed eccentricità , foss’anche il collo lungo – dall’elegante postura – della Madonna del Parmigianino alla Galleria degli Uffizi.
Il Manierismo – recinto grazioso di disincanto ed eversione –spiana cimiteri di civiltà , arriva quando tutto è finito e propone riscritture culturali, palinsesti. Il monologo di Amleto è lo spettacolo della solitudine. «Un Amleto di meno» avrebbe dettato Carmelo Bene. E l’Essere e il non-Essere sono gli estremi di una vasca i cui lati sono follia e oblio e al cui interno «galleggiano», spiega Bonito Oliva, «tutte le contraddizioni». E qui occorre il Tasso: «Bello in sì bella vista anco è l’orrore».
Il Manierismo è una macchina di teatro asettica e a-morale, come il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, che raccontava con nostalgia di una corte scomparsa, una compagnia del ricordo di cui più nessuno era in vita. L’unico recupero stava ormai nella narrazione dei gesti e della forma della corte; il tutto, ovviamente, con raffinatezza, volto alla salvaguardia del potere. «Il Mignon», scrive Bonito Oliva, «è quel suddito che ha la facoltà di assumere gli abiti e gli attributi del suo Sovrano, cioè di esercitare la sua funzione e il suo ruolo. È fin troppo evidente che questa è una delle mistificazioni su cui si basa il potere: la metafora è rassicurante perché il Mignon non è il Re ma è come se lo fosse. Il doppio del Padrone non può che difendere l’identità del Padrone stesso, che se la gestisce al di fuori di ogni diretta pericolosità ».
Tutto è già scritto e tutto è attuale: nel racconto di Castiglione analizzato da Bonito Oliva c’era come un circo, una maramalda armata Brancaleone guidata da un pazzo megalomane e non da un cortigiano della politica concreta, uno che adotti la coercizione economica per non fare fallire il capitalismo del nuovo ordine mondiale, del potere della finanza internazionale e della democrazia. E se si aggiunge una citazione, adoperata da Bonito Oliva nel lontano 1976, il dettaglio è persino divertente. Trattasi di una lettera di Freud a Groddeck: «L’inconscio è ancora soltanto qualcosa di fenomenico, un segno distintivo, in mancanza di una conoscenza migliore. Come se dicessi: il signore nel cappotto di loden, di cui non riesco chiaramente a vedere il viso. Cosa faccio se un giorno egli compare senza questo indumento?».
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