Pellegrinaggi nell’era del jet

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Pochi europei sanno che Arafat non è tanto il cognome del leader palestinese più famoso (e premio Nobel per la pace), quanto un nome sacro per l’Islam che indica la meta del momento più saliente del pellegrinaggio alla Mecca: il monte Arafat, in realtà  una modesta collina fuori la Mecca. È sul monte Arafat che il profeta Maometto pronunciò il suo ultimo discorso, tre mesi prima di morire, nel marzo del 632. D. C. (adesso siamo nell’anno islamico 1433 dall’Egira). Ed è qui che tre milioni di pellegrini provenienti da 100 nazioni confluiscono ogni anno per quella che secondo il Corano è una prova generale del giorno del Giudizio. In quel giorno, tutti i musulmani del mondo festeggiano e sacrificano gli agnelli, nella «Festa del Sacrificio» (Eid al-Adha, un po’ come la nostra Pasqua).
Al pellegrinaggio annuale alla Mecca (hagi) il British Museum di Londra dedica una grande esposizione, Hagi. Viaggio nel cuore dell’Islam, che chiuderà  il 15 aprile: mostra interessante quanto lo è il più grande assembramento di esseri umani che si conosca, una mostra però che suscita perplessità  e interrogativi, come cerco di spiegare nell’articolo accanto.
Il ministero delle offerte
L’esposizione descrive nelle varie sale la storia di questo rito, dall’ultimo anno della vita del Profeta e dagli albori dell’islamismo, fino a oggi. A scansare ogni equivoco sulla pretesa arcaicità  del pellegrinaggio, già  mesi prima che esso cominci, un canale satellitare (Haji Channel at CyberTv) e un sito Internet (www.islam.org/islamicity/hajj/) diffondono informazioni e pubblicità  con calendari e mappe dell’itinerario del hagi. Le banlieues parigine, i ghetti turchi di Dortmund, i suburbi pakistani di Londra sono tappezzati di annunci del hagi e di videocassette. Da ogni luogo abitato dal miliardo 700 milioni di musulmani (quasi un quarto di tutti gli umani), agenzie di viaggio e linee aeree offrono prezzi stracciati, forfait per gruppi, sconti per famiglie.
Il Hagi va dall’8 al 12 dell’ultimo mese dell’anno musulmano, Dhul-Hijjah, quando l’Islam ricorda il sacrificio di Abramo. Nel Corano Allah dice ad Abramo: «Purifica la Mia Casa per quei che l’aggirano pii, per i ritti in preghiera, per chi s’inchina e si prostra! E leva fra gli uomini voce d’invito al pellegrinaggio, sì che vengano a te a piedi, e su cammelli slanciati, che vengano a te da ogni valico fondo tra i monti».
Per quanto nel corso dei secoli molti europei si siano travestiti per riuscire a vedere la Kaaba (vedi articolo accanto), per chi non è musulmano è impossibile afferrare il valore del hagi nel forgiare l’Islam. «Né la presenza di Lourdes in Francia, né quella di Fatima in Portogallo hanno reso necessaria l’istituzione di un ‘ministero del Pellegrinaggio e delle Offerte’, ministero che invece troviamo nell’Arabia saudita e che è fra i più importanti e potenti di quello stato» (Manfred Kropp).
Per quanto diffuso infatti, tra i cristiani il pellegrinaggio è un atto facoltativo, una benemerenza in più per il fedele. Nell’Islam invece il Hagi è uno dei cinque pilastri (rukn) della fede, dovere, almeno una volta nella vita, di ogni musulmano cui la salute e i mezzi lo permettano, tanto che una tradizione attribuisce al Profeta il detto: «Chi muore senza aver compiuto il hagi, muoia come un ebreo o un cristiano». Sono incolpevoli minorenni, dementi e schiavi. 
Cammelli carichi d’oro
L’obbligo riguarda anche le donne, ma a patto di essere accompagnate dal marito o da un membro della famiglia che non può sposare a causa dei legami di sangue. «A rigore il marito è tenuto a darle la possibilità  di compiere almeno una volta nella vita il pellegrinaggio; ma chiunque conosca un po’ la realtà  dell’Oriente comprenderà  subito che queste disposizioni restano per lo più lettera morta, perché ben di rado una donna è in grado di costringere suo marito a fornirle i mezzi necessari», scriveva nel 1880 l’islamista olandese Christian Snouck Hurgronje ne Il pellegrinaggio alla Mecca (Einaudi, 1989): ma da allora la situazione non è cambiata.
Nell’Islam primitivo, La Mecca era alla portata di tutti, dei «piedi» e dei «cammelli slanciati»; era un grande bazar e «i pellegrini si finanziavano il viaggio recandovi mercanzie e scambiandole con altre che si portavano indietro» (Ira Lapidus). Ma quando l’Islam si diffuse prima nella fertile Mezzaluna e in Egitto, poi per tutto il Maghreb e via via fino in Cina e in India e in Indonesia e nelle Filippine e nell’Africa australe, il hagi divenne troppo oneroso, troppo arduo per il comune fedele. E il titolo El Hagi, di cui era insignito chiunque avesse compiuto il pellegrinaggio, divenne onorifico, come dire «il santo». 
Nella mostra londinese molte belle mappe geografiche mostrano il percorso degli antichi pellegrini, della regina Zubayda (765-831 d. C.), moglie del califfo Harun el Rachid, che compì l’hagi almeno cinque volte (e a questo scopo attrezzò la strada che da Baghdad attraverso il deserto portava alla Mecca in quaranta giorni, da lei chiamata la via Zubayda) fino al re del Mali Mansa Musa (che regnò tra il 1312 e il 1337) e compì il pellegrinaggio nel 1324 guidando una carovana di 60.000 uomini (di cui 12.000 schiavi) con 600 cammelli carichi ognuno di 140 chili d’oro.
Mentre diventava più elitario, il hagi si faceva però sempre più necessario per mantenere coesa l’unità  islamica, poiché la lingua originaria del Corano, un arabo arcaico e intraducibile, diventava sempre più ostico per i fedeli sparsi per il mondo. 
L’antropologo Victor Turner ha scritto pagine magistrali per descrivere il ruolo del pellegrinaggio nel plasmare le comunità  dei credenti. Ma in un Islam ormai «globale» questo ruolo non sarebbe stato praticabile senza la rivoluzione industriale dei trasporti. Fu grazie alle navi a vapore (oggi gli aerei) che il hagi divenne una «epopea mondiale», come scrive un depliant saudita.
In uno dei più grandi romanzi coloniali europei, fu proprio sul Patna, un vapore carico di pellegrini asiatici diretti alla Mecca, che un giovane primo ufficiale cui più tardi indigeni isolani avrebbero affibbiato il nome di «Lord Jim», conobbe la vergogna di aver abbandonato la sua nave pericolo insieme al capitano e a due macchinisti. Ora la mostra londinese ci fa sapere che Joseph Conrad trasse l’idea del suo capolavoro da un avvenimento reale. Vediamo infatti esposte le fotocopie di due articoli, il primo datato 14 agosto 1880 di The Wrexham Advertiser, intitolato «Riportata la perdita di una nave di pellegrini e di 1.000 vite», che racconta come il vapore Jeddah sia affondato provocando la morte di tutti i presenti a bordo «tranne il capitano, sua moglie, il primo ufficiale, il primo macchinista, il secondo macchinista e 16 indigeni». Ma un articolo del Leicester Chronicle del 28 agosto riporta che «Un successivo telegramma da Aden riferisce che la Jeddah, che era stata abbandonata in mare con i suoi 953 pellegrini a bordo, non era affondata, come riportato dal comandante, ma è arrivata ad Aden sana e salva con i suoi passeggeri»; il giornale riferisce che il capitano fu sospeso per 3 anni (nel romanzo di Conrad al futuro Lord Jim fu invece revocato il brevetto di ufficiale).
All’inizio del ‘900, grazie ai (tardivi) sforzi di modernizzazione dell’agonizzante impero ottomano, il «pellegrino a vapore» poté usufruire anche di un treno: tra il 1900 e il 1908 ingegneri tedeschi costruirono la ferrovia Hijaz che permise di congiungere Istanbul alla Mecca in soli cinque giorni: ora la ferrovia è in disuso, tranne in un tratto in Giordania. Le cifre esposte nella mostra dicono meglio di ogni parola l’esplosione della pratica dell’hagi dovuta alla rivoluzione dei trasporti. Nel 1932 i pellegrini furono 20.000. Nel 1950 erano quintuplicati (107.000); da allora fino al 1970 quadruplicarono ancora (406.000); nel 2000 erano ancora quintuplicati (1.913.000) e nel 2011 erano quasi tre milioni (con un’avvertenza, vedi articolo accanto).
Navi, aerei, videocassette, siti Internet: senza il grande apparato tecnologico sarebbe impossibile il pellegrinaggio alla Mecca, che ogni anno infonde nuova vita nell’Islam. Ma se si scrutano i particolari, questa tecnologia adempie riti primordiali, e l’antico si mischia indistricabile al moderno: a pochi passi dalla Pietra nera, dalla Kaaba, sorge un fast-food della catena KFC (Kentucky Fried Chicken). E però per tre notti, nella piana di Mina, i pellegrini devono dormire in tende (separate di uomini e donne, anche per i coniugi). Solo che le 30.000 tende che i sauditi avevano ordinato nel 2000 sono – come mostra un filmato della mostra – equipaggiate con condizionatori d’aria esterni. E sono fatte di teflon ignifugo per evitare incendi come il rogo del 1997 che uccise 347 pellegrini attendati. Gli ospedali da campo hanno 5.000 posti letto e uno staff di 10.000 persone. Alla dogana viene requisito qualunque profumo o sapone profumato, ma nell’aeroporto di Geddda lo speciale Haji Terminal (separato dagli arrivi internazionali e vietato ai non musulmani) è un’immensa struttura a cielo aperto con 210 tende in fiberglass, tutti i comforts moderni e 1.100 cessi.
Il giorno delle cosce
Uno dei momenti forti del hagi è la simulazione del linciaggio del demonio, cioè il lancio delle pietruzze contro un cumulo che si trova a Mina (e le pietre devono essere così piccole da essere tenute tra pollice e indice): nel 1998, nella calca 118 persone morirono schiacciate (224 furono ferite). Pietruzze sono lanciate contro altri due cumuli di Mina anche l’undicesimo giorno, detto «delle teste» e il dodicesimo, detto «il giorno delle cosce» (dalle parti degli animali sacrificati che si mangiano in quei giorni). E naturalmente c’è il momento più noto: i sette giri intorno alla Kaaba (il cubo di otto metri di lato in cui è incastonata la sacra «pietra nera» caduta dal cielo), cerimonia chiamata Tawaf.


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