Partiti modello public company e lontani dal potere economico

by Editore | 11 Aprile 2012 7:32

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Sotto traccia, serpeggia il timore che qualche magistrato possa verificare la congruità  delle spese cosiddette elettorali per le quali i partiti hanno avuto rimborsi così abbondanti. Ma in fondo a giustificare l’affanno basta il discredito generato da tanto malaffare su una politica che già  aveva abdicato a favore dei tecnici. E però, con l’affanno, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ogni Paese ha i suoi scandali. Al termine del mandato presidenziale, Jacques Chirac deve rispondere di tangenti alla giustizia francese. In Germania, un gigante come Helmut Kohl ha lasciato per versamenti irregolari al partito. E tuttavia gli uomini non possono convivere senza politica. E la democrazia, pur macchiata spesso dalla corruzione, è sempre meglio dei regimi autoritari, dove, di regola, la corruzione è superiore. Ma in una democrazia è preferibile che la politica — organizzata in partiti o in comitati elettorali — sia finanziata soltanto da soggetti privati, con risorse proprie e senza sconti fiscali, oppure che vi si provveda in un regime misto, pubblico e privato, ma, a questo punto, tutto da reinventare?
L’Italia ha sperimentato entrambi i regimi. Nei trent’anni seguiti alla Liberazione, i partiti vivevano dei contributi di iscritti e benefattori, i quali ultimi erano imprese di varia grandezza ed enti e governi stranieri. L’articolo 49 della Costituzione prevede che i partiti concorrano in modo democratico alla politica nazionale. Non è chiaro come l’articolo 39 che impone la registrazione dei sindacati e la vincola all’adozione di statuti democratici. Ma il significato di fondo è lo stesso. Eppure, nessuno dei Padri della Patria volle mai dare a nessuno il destro per mettere il naso nei fondi elargiti dall’Eni e dalla Edison, dalla Fiat e dai petrolieri, dai sindacati americani o dal Cremlino. Quel regime privatistico e opaco finì tra gli scandali e così, dal 1974 ai giorni nostri, si sono susseguite diverse normative per regolare il finanziamento pubblico, ma nessuna è stata in grado, fin qui, di evitare l’appropriazione privata dei benefici del controllo della cassa e del partito.
Tornare a un finanziamento interamente privato ma trasparente, sul modello americano, può sembrare l’uovo di Colombo. Ma lascia aperta la strada all’influenza dei poteri corporati dell’economia sul governo del Paese. La sterminata legione degli ultimi e dei penultimi diventerebbe la carne di cannone dei primi. Le donazioni di Wall Street e la correlata ascesa politica dei suoi banchieri hanno avuto un gran peso nell’affermare la deregulation dei mercati finanziari che ha poi determinato la Grande Crisi. Ma come conciliare allora il finanziamento assennato della politica con l’eguaglianza dei diritti politici dei cittadini? In un regime democratico e liberale, nessuno potrà  impedire alla grande azienda o alla grande banca di dare soldi a un partito o a un uomo politico, ma tutti possono esigere che avvenga senza bonus fiscali e che venga immediatamente registrato e reso noto online a partire da cifre minime. Così ciascuno potrà  verificare se certe battaglie abbiano connessioni con certi denari. Ma perché non prevedere, accanto e in competizione con questa forma di finanziamento elitaria, anche altre forme più diffuse e adatte a un Paese dove ancora votano i due terzi dei cittadini e tutti dicono di non volere l’astensionismo di massa? In questi giorni si parla di tagliare i rimborsi elettorali (basterebbe stabilire un tot a voto ottenuto) e di aprire ai partiti il 5 per mille nella dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Sarebbe un passo avanti. Ma si potrebbe anche arrivare ad altre soluzioni, un po’ meno comode e po’ più egualitarie. Viene in mente quella cui sta lavorando l’economista Pellegrino Capaldo: poter donare ai partiti vecchi e nuovi e agli istituti di cultura politica fino a 2 mila euro a persona con un credito d’imposta pari al 95%; con 100 euro di onere personale se ne darebbero 2 mila al partito.
Tutte le proposte sono perfettibili. L’importante è che i partiti diventino delle vere public company ovvero, se vogliono avere un padrone o pochi azionisti di riferimento che li mantengono, che lo si sappia. In ogni caso, trasparenza vorrebbe che, con bilanci consolidati e certificati, siano leggibili entrate e costi, passività  e attività . A cominciare dalla proprietà  del simbolo. Che nella tanto bistrattata Prima Repubblica era intestata al segretario pro tempore e non invece a una o più persone fisiche. Come accade, per esempio, nella Lega.

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