Omar Calabrese, passioni diverse nel segno della coerenza

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La notizia della morte di Omar Calabrese mi è giunta da molte voci e in molte lingue. Avevo letto da poco la sua introduzione a una mostra del comune amico Valerio Adami, pubblicata da Casa Usher, dove riprendeva acutamente il contributo di Hubert Damish e il mio sul suo tema prediletto: «gli oggetti-teorici-arte». 
Ho accolto le parole accorate di un amico con lo smarrimento temporale che mi suscita la scomparsa di qualcuno molto più giovane e un primo effetto di silenzio. Come se parlarne facesse perdere il senso dell’amicizia che mi ha legato a Omar per anni e interrompesse il dono reciproco e irreversibile di riflessioni e di letture che ha segnato la nostra vita e la carriera di insegnamento e di ricerca. (Per anni abbiamo insegnato insieme all’Università  di Bologna).
Ora cerco le parole – non quelle giuste, giusto le parole – per esprimere il senso di fraternità  con un uomo che ho sempre tenuto a portata di pensiero, di scrittura e di voce. Per prima cosa devo respingere la tentazione, forte nella circostanza, di dire : «amici, non ci sono più amici». 
La parola amico, per e con Omar, è sempre stata declinabile al plurale, come dimostra la sua disponibilità  di ricercatore e di professore, i suoi legami politici, intellettuali ed accademici. Come mostrano gli «scritti seriosi e schizzi scherzosi per Omar Calabrese» che i suoi allievi ed amici avevano raccolto, col titolo Testure, in omaggio al suo sessantesimo compleanno (Protagon 2009). Una raccolta di testi, disegni, immagini, fotografie, caricature, che testimoniano l’ampiezza delle sue curiosità , dei suoi interessi e delle suoi gusti: dalla teoria della comunicazione a quella dell’arte, dallo studio dei media a quello dei segni. Rileggere le sezioni – «Dar senso alle immagini», «Attraversare frontiere», «Progettare il senso», «Tessere frammenti: cultura e Comunicazione», «Pensieri in immagini» – dà  il senso del suo riconosciuto talento e della sua vasta reputazione. 
E poiché siamo definiti da noi stessi ma anche dallo sguardo degli altri, la lista dei quarantaquattro contributi è un campione eloquente: storici dell’arte come Stoikita, Puppi e Damish, scienziati sociali come Abruzzese, Livolsi, Buttitta, Bagnara, e soprattutto semiologi italiani come Eco, Manetti, Pezzini, Marrone, e stranieri come Parret, Petitot, Bertrand, Landowski, Lozano, Zunzunegui. Senza contare, anzi contando tutti i suoi molti collaboratori nel mondo editoriale e professionale, i colleghi e i numerosi allievi. 
Nell’introduzione a Testure, Calabrese scriveva: «Scelta di vita: abito in campagna, voglio una diversa qualità  di esistenza. (…) Mi piace ballare, cantare, giocare a carte (bridge e tresette), giocare a scacchi, giocare a ping-pong e calcio balilla. Ciononostante, alcuni dicono che sono una persona seria: sarà  un’offesa o un complimento?». 
Siamo nei tempi dell’en-click-opedia: è facile reperire l’attivismo versatile con cui Omar Calabrese ha pubblicato libri e articoli – sulla stampa nazionale e specialistica -, creato e condotto dottorati di ricerca, collaborato a progetti editoriali, e a riviste – da Alfabeta1 e 2, fino a «Carte semiotiche» – dato innumerevoli conferenze, organizzato colloqui in Italia e in Europa. (Iniziative che ho spesso condiviso, come la rubrica Profezie («Panorama», 1989-91), abbandonata quando il settimanale passò in mani che non avremmo voluto stringere). Una carriera internazionale simbolicamente coronata a Parigi il 17 novembre 2010, dal Prix Bernier dall’Académie des Beaux Arts-Institut de France, per il volume L’art du trompe l’oeil (Citadelles et Mazenod, 2010, oggi Jaca Book, 2011).
A rischio di moltiplicare le iperboli, dirò che gli impegni e le passioni di Omar Calabrese – Omar per l’origine tunisina della famiglia paterna – erano diverse e rizomatiche, comprendevano interessi professionali e politici – ha costruito mostre (in occasione del Giubileo, una, memorabile sulle molte Sindoni!), dato un nome a modelli di auto della Fiat e ha contribuito a disegnare il logo dell’Ulivo. All’accusa, spesso implicita, di eclettismo o di tuttologia, Omar ha risposto con la coerenza euristica. Non ha mai praticato gli opportunismi parametrici di chi applica di volta in volta strumenti diversi allo stesso oggetto. Ha usato un solo metodo per oggetti differenti: la semiotica, di cui è stato creatore di concetti, sostenitore coerente e docente costante. 
Di formazione linguistica, allievo fiorentino di Nencioni, Calabrese era – mi rincresce questo imperfetto! – prossimo alla variante semantica della semiotica più che a quella logica e inferenziale. Per intenderci, ha seguito la linea di ricerca di Greimas e di Louis Marin, più che la lezione epistemologica di C. S. Peirce e di Umberto Eco, a cui è sempre stato vicino e con il cui grande talento non ha mai smesso di confrontarsi. 
Insieme, per un periodo non breve, a cavallo dei turbolenti anni Settanta, abbiamo fatto del Dams di Bologna un centro di qualità  internazionale nella difficile ricerca di dire qualche cosa di sensato sul senso. Una posizione che abbiamo difeso, a fronte del movimento teorico «a passo di gambero» – per dirla con Eco – in una intervista al Circulo de Bellas Artes di Madrid (Minerva, n. 14, 2010).
Assai prima della cosiddetta svolta visiva, Calabrese aveva intrapreso una riflessione sull’immagine in generale e sulle arti visive in particolare. Nella vena di Gombrich e delle sue influenze «sematologiche» (Buhler), Calabrese non si voleva connoisseur e non faceva attribuzioni. Ha studiato i problemi e le soluzioni più che i temi e gli autori della pittura, i meccanismi di significazione più che le scuole e le monografie. Il più noto, se non il più significativo dei suoi esiti è la pregnante lettura «neobarocca» di alcuni filoni della testualità  visuale contemporanea. Da vero ricercatore, Calabrese ha evitato di farsene, come molti altri critici, un marchio di fabbrica. Ha proseguito i suoi studi sugli oggetti teorici dell’arte, quelli che contengono – come il trompe-l’oeil – le proprie istruzioni metalinguistiche di impiego e ha dedicato riflessioni originali alla modalità  dell’enunciazione visiva, ai dispositivi di soggettività  e di intersoggettività  nei dipinti. In questo campo semiotico Calabrese si è creato e in qualche modo giustificato i suoi precedenti. Testi pubblicati o ancora inediti che definiscono ma non ne esauriscono le multiformi competenze culturali e disponibilità  analitiche.
La storia collettiva o individuale è pudica e le sue date significative sono segrete. Tuttavia Calabrese mi è sempre sembrato un ghibellino, non un guelfo. Conosco, senza pregiudicarle, le sue passioni, spesso deluse, per la politica della sinistra italiana, un mondo di assoluta ostilità  che non gli si addiceva. Non so se avesse un penchant per la metafisica, ma se così fosse è stato salvato dalla felicità : dalle sue radici mediterranee, dalla sua moglie siciliana, Francesca. Rari e preziosi sono coloro che alle difficoltà  congenite della salute hanno risposto con una sfida così intensa e dinamica, maneggiando una scrittura limpida (che bella calligrafia aveva questo specialista di media digitali!) e un’affilata lingua toscana.
Siamo fatti di tempo e sono inutili le sue confutazioni. Non credo alle disperazioni apparenti e alle consolazioni segrete. Un uso felice dell’eternità  dove avremo tutti gli istanti delle nostre vite e potremo ricombinarli a piacimento. Credo invece fermamente e laicamente che ci sia nella ricerca coerente di Calabrese, unita al suo talento per l’amicizia, un’indicazione a proseguire e un esempio, un campione, di comunità , riconoscibile nel suo insegnamento e che va oltre i rapporti accademici. Per questo penso alla sua scomparsa come all’interruzione di un progetto che tocca ad altri rendere provvisoria. Allora «la morte non avrà  signoria». 
Quanto a me, so cosa devo fare. In un libro del 1999, Eloquio del senso, Costa & Nolan, a cura di Pierluigi Basso e Lucia Corrain (entrambi allievi di Calabrese), Omar mi dedicò un saggio: La memoria geroglifica. Riflessioni semiotiche sul frontespizio dei “Principi di Scienza nuova” di G. B. Vico; avanzava una ricerca che non avevo portato a termine. C’è nell’amicizia una sproporzione per cui facciamo fiducia agli altri più che a noi stessi. So quindi cosa devo fare. Ad altri ricordo: «Amici, ci sono ancora amici!».


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