Omar Calabrese: Addio allo studioso che spiegava il mondo dal barocco a Carosello
Omar Calabrese, semiologo e mediologo, è morto a 63 anni sabato sera nella sua casa di Monteriggioni, vicino a Siena (nella cui università insegnava dal 1993), per un infarto, mentre guardava la televisione. Quella morte, così comune, acquisiva in lui, che aveva fatto della televisione l’oggetto di studi pionieristici sin da quando si era laureato a Firenze, con Giovanni Nencioni, sul linguaggio di Carosello, un senso diverso. La prima immagine che mi si è imposta, una volta appresa la notizia, è stata infatti quella di Bergotte, lo scrittore personaggio della Recherche di Proust, che muore davanti alla Veduta di Deft di Ver Meer, dove spicca “un piccolo lembo di muro giallo”, la quintessenza dell’arte, il segreto inseguito nella sua vita di creatore. Spero che il paragone tra una morte letteraria e una morte reale non appaia irriguardoso, ma credo che sarebbe piaciuto al mio amico Omar, col quale avevamo discusso, insieme a Franco Farinelli, Paolo Fabbri, Valerio Adami, proprio di quel “piccolo lembo di muro giallo” meno di un anno fa.
Avevo conosciuto Calabrese nel 1980, a Milano, dove lui era caporedattore di Alfabeta, e io redattore alle primissime armi. Calabrese stava elaborando una semiotica delle arti capace di rendere conto tanto dell’arte colta quanto della cultura popolare, superando una scissione tra alto e basso che ai tempi in cui aveva iniziato la sua carriera di studioso era ancora pienamente vigente. Era apparso del tutto naturale che, dopo gli studi di storia della lingua italiana, Calabrese approdasse a Bologna, divenendo uno dei più stretti collaboratori di Umberto Eco, che per lui (come per tanti di noi) era l’emblema della possibilità di fare discorsi seri sulla contemporaneità senza per questo perdere i riferimenti alla tradizione, alla cultura, e al suo senso profondo. Questo spirito si manifesta con particolare chiarezza in uno dei suoi libri più fortunati e tradotti, L’età neobarocca (1986), che è una delle più lucide e inventive interpretazioni del postmoderno, valorizzato per la sua ricchezza estetica e non per la sua dimensione ideologica, e insieme messo in connessione con uno dei fenomeni più sofisticati della storia culturale europea, cioè appunto il barocco.
Questa tensione si ritrova in tutta la sua bibliografia, amplissima e fortunata, e tanto più significativa se si considera che Calabrese si era speso anche sul fronte della organizzazione culturale (curando i contenuti culturali per le Esposizioni Universali di Vancouver, Brisbane, Siviglia, Genova e Hannover) e della militanza politica, come consigliere comunale a Bologna, assessore alla cultura del Comune di Siena, e in molti altri incarichi contribuendo alla fondazione dell’Ulivo. La produzione scientifica di Calabrese si è esercitata in almeno quattro settori, ognuno dei quali sarebbe bastato a fare uno studioso completo.
Il primo, in ordine cronologico, è lo studio dei mass media (di cui fu anche un protagonista, collaborando a trasmissioni televisive e al Corriere della sera, Panorama, El Pais, la Repubblica, l’Unità ), che comprende libri come I giornali, (1979, con Patrizia Violi), Come si vede un telegiornale (1981, con Ugo Volli), e Come nella boxe. La politica nell’era della televisione, uscito nel 1999. Poi c’è la semiotica della pittura, dove probabilmente Calabrese ha dato i suoi contributi più rilevanti, in libri come Semiotica della pittura (1981), Il linguaggio dell’arte (1984), La macchina della pittura (1985), L’art de l’autoportrait (2006), L’art du trompe-l’oeil (2010): quest’ultimo ha ottenuto il Prix Bernier dell’Accademia di Francia per il miglior libro d’arte dell’anno. E sapendosi muovere, anche qui, e con perfetta naturalezza, tra antico e moderno e tra alto e basso, da Piero della Francesca e Simone Martini alla Vespa e alla moda (il nome “versus” della linea di moda di Versace è stato suggerito da Calabrese, che aveva preso il titolo, Versus, appunto, della rivista di semiotica di Eco), con un sincretismo ben rappresentato da titoli come: “Picà¡zquez. Ovvero: chi è l’autore de Las meninas?”. Ma c’è anche il teorico e lo storico della semiotica generale, in opere come Guida alla semiotica (1975) e Breve storia della semiotica (2001). E c’è infine l’etnologo dei miti d’oggi, capace di trovare le analogie riposte che legano Sandokan a Garibaldi (Garibaldi tra Ivanhoe e Sandokan, 1982).
Lo rivedo ancora che cerca di insegnarmi a giocare a biliardo in un bar vicino ad Alfabeta (la passione, mi confessava qualche tempo fa, gli era rimasta), mentre mi parla di René Thom e di Greimas. Non ho mai imparato a giocare a biliardo, ma credo di avere imparato da lui una cosa essenziale. Interessato ai minimi dettagli della vita quotidiana e della cultura attraverso cui si manifesta, aveva ben chiaro che la passione per il presente non può trasformarsi in idolatria o feticismo. Immagino che alla battuta della filosofa Avital Ronnel secondo cui Aristotele, se fosse rinato oggi, si sarebbe occupato di sit com, Omar avrebbe risposto: “Sì, certo, ma si sarebbe anche occupato di fisica, di teoria della conoscenza, di psicologia, di biologia e di metafisica”. Insomma, Omar era amico del pop, ma ancora più amico della verità in fatto di valori culturali, ed erano temi su cui ci eravamo trovati a discutere tante volte. Dovevamo tornare a farlo a fine mese a Milano, in un incontro in cui si sarebbe ricordata la prima Alfabeta, ma che, mi sento facile profeta, sarà anzitutto l’occasione di ricordare un grande amico e un grande intellettuale.
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