Oltre il vortice della Piazza Rossa c’è spazio per sognare a Vitebsk

by Editore | 26 Aprile 2012 6:53

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Fuori il cielo della capitale è plumbeo e denso di pioggia, dentro le forme sembrano danzare ritmicamente e sprizzano una polifonia musicale. Figure che ottimisticamente guardano a un caos rivoluzionario, a tratti poetico e fiabesco, altre spigoloso e geometrico, altre ancora dinamico e sfuggente, pronto ad «apparecchiare» – per le nuove generazioni – raccontano una società  diversa, in pieno mutamento e movimento. 
La convergenza utopica delle varie discipline delle arti in Russia ha avuto qualcosa di magico – bene è raccontato nel film documentario che accompagna la mostra romana dove vengono presentate anche le istanze ribelli del cinema, del teatro e della danza – ma si è inverata (e poi ha battuto, forzatamente, la ritirata) per una stagione breve, una manciata di anni. A Roma l’«assaggio» di quel fiorire di immagini è tangibile in un itinerario costruito su settanta opere, divise per capitoli (cubofuturismo, suprematismo, raggismo, costruttivismo) che portano fuori dai musei regionali dell’ex Unione Sovietica molti capolavori. La provenienza dei dipinti segnala sedi periferiche spesso (se si esclude la galleria Tretyakov di Mosca che fornisce la strepitosa Piazza Rossa vista con gli occhi di Kandiskij) e alcuni lavori sono sopravvissuti ad anni di «completo oblio nei depositi, in condizioni non idonee alla loro conservazione, e anche alle ingiunzioni che volevano venissero distrutti», come scrive nel catalogo, edito da Silvana, Andrey Sarabiyanov.
Il percorso, a cura di Viktoria Zubraskaya, già  allestito a Palermo (qui a Roma, fino al 2 settembre) accoglie come primi protagonisti i falciatori e le mietitrici di Malevich, saldi «guerrieri» della terra. Sono ritratti in piena attività , chiusi nel guscio geometrico che li stilizza e à ncora a una solidità  dal sapore primitivo (ultima frontiera da attraversare per poi gettarsi nell’astrattismo), totem umani che presto verranno spazzati via «dalla pura sensibilità  del suprematismo». «Quando nel 1913 – scrive Malevich – nel mio disperato tentativo di liberare l’arte dalla zavorra dell’obiettività , mi rifugiai nella forma quadrata e mostrai una pittura che consisteva di nulla più che un quadrato nero su fondo bianco, i critici e il pubblico singhiozzarono…». 
Per asciugarsi le lacrime è sufficiente fare qualche passo e fermarsi in compagnia di tre piccoli quadri di Marc Chagall. Siamo a Vitebsk, cittadina che diede i natali all’artista e da lui amatissima, quasi un «ventre» poetico dove tornare a più riprese (almeno con la pittura). I bellissimi Negozio a Vitebsk (1914) e Bagno di bimbo (1916) sono una pausa onirica e molto dicono dell’idillio mai spezzato, nonostante l’esilio e un’esistenza «europea», che Chagall visse con la sua terra. Poi, si viene travolti: Larionov, Goncharova, Khun, Menkov, Rodchenko e i «paraboloidi iperbolici» di Makarova, le nuove architetture che rifiutavano il volume a favore della trasparenza e la tensione delle strutture.
Chiude (o riapre) la prospettiva russa l’installazione di Pablo Echaurren, disegni-poster in cui il linguaggio delle avanguardie viene rivisitato con un gioco di grande leggerezza.

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