Nuove chiavi di lettura nelle tre versioni di un classico

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La recente edizione di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica. Tre versioni (1936 – 39) a cura di Fabrizio Desideri – traduzione di Massimo Baldi – (pp. 198. euro 16,50), mandata in libreria da Donzelli, lungi dall’essere un’operazione squisitamente filologica destinata a studiosi accademici di Benjamin, si rivela, al contrario, uno strumento prezioso nel sottolineare la caratteristica di «laboratorio aperto» dell’opera del filosofo, in particolare per quei testi elaborati negli anni Trenta del Novecento, innervati profondamente e pertanto inseparabili, nella biografia dell’autore e negli eventi storici che gli hanno irrevocabilmente attribuito un carattere di incompiutezza. 
Si tratta tuttavia di una incompiutezza straordinariamente fertile di interpretazioni, che apre di continuo nuove chiavi di lettura in direzione del presente. In questo testo, Benjamin riflette sulle radicali trasformazioni del rapporto tra pubblico e produzione artistica, come conseguenza della diffusione di quei dispositivi tecnologici – in primo luogo fotografia e cinema, ma anche radio e fonografo – in grado di riprodurre tecnicamente l’evento artistico. L’idea di Benjamin è quella di esaminare il modo in cui l’avvento e lo sviluppo della fotografia e del cinema mutino irrevocabilmente il ruolo e il carattere dell’arte. Egli infatti sostiene che sia giunta l’ora di abbandonare la fuorviante idea del valore artistico della pittura rispetto alla fotografia e ancor di più la futile questione se la fotografia possa essere considerata un’arte. La vera domanda per il filosofo ebreo berlinese è «se attraverso la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte». 
Per Benjamin, la fotografia e il cinema sono mezzi di comunicazione radicalmente nuovi che non possono essere realmente compresi e in nessun modo analizzati nei termini delle categorie e dei criteri estetici tradizionali. Interessante riportare la critica che rivolge a Franz Werfel, per il quale il cinema era una forma artistica impoverita in quanto sembrava prediligere soggetti esteticamente sgradevoli: «a bloccare l’accesso del film al regno dell’arte, è la sterile copia del mondo esterno con le sue strade, i suoi interni, le sue stazioni, ristoranti, macchine spiagge. Il cinema potrebbe trovare il suo posto fra le arti solo quando si rivolgesse a temi autenticamente artistici: ciò che è magico, meraviglioso, sovrannaturale». Benjamin confuta decisamente quest’idea: «Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine». 
Nella puntuale e articolata prefazione al volume, Fabrizio Desideri mostra come ciascuna delle versioni, per quanto non differisca in maniera radicale dalla precedente, offra l’opportunità  di uno spostamento di senso che, in più di un passaggio, consente di ipotizzare un «Benjamin oltre Benjamin», quasi in maniera analoga alla lettura del «Marx oltre Marx» tentata da Antonio Negri e dal pensiero post-fordista, a partire dalla lettura dei Grundrisse. Tuttavia, nell’interpretare la profetica visione di Benjamin, Desideri, in modo formalmente corretto, non osa oltrepassare il testo, spingendosi certamente «oltre l’estetica», come è plausibile con un autore fortemente e totalmente politico come Walter Benjamin, ma fermandosi sulla soglia dello sguardo critico di Tempi moderni di Charlie Chaplin, film che si caratterizza sostanzialmente nel rappresentare la disumanizzazione dei ritmi di produzione della fabbrica, restando compiutamente dentro i confini di una «critica del moderno». Ma nella distanza con Adorno, che persiste nel considerare reazionario il film di Chaplin, insieme alle risate del pubblico, emerge lo sguardo più acuto e lungimirante di Benjamin, che legge «nell’espressione ferocemente allegra e colma di pietas il volto barbaricamente moderno dell’inumano».


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