Notizie dal ghetto di «tette e cosette»

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Una sorta di osservatorio, insomma, che passa al setaccio in chiave di genere quotidiani, riviste e supplementi letterari per analizzare (fra l’altro) quanto, come e di cosa scrivono le donne e sulle donne si scrive. Da non molto sono usciti i dati statistici relativi al 2011 che dimostrano come la presenza di autrici nelle pagine culturali sia ancora, con alcune meritevoli eccezioni («Granta», fra gli altri), largamente minoritaria. Giusto per citare un paio di esempi, nella «London Review of Books» su 184 recensori le donne sono 29 e su 221 autori recensiti le scrittrici sono 58 e dati molto simili, se non peggiori, si ritrovano anche alla «New York Review of Books», dove addirittura a fronte di 133 autori (uomini) di articoli, le autrici sono soltanto 19. 
Dati eloquenti, e già  ampiamente dibattuti, non tanto per auspicare «quote rosa» nelle pagine culturali, ma per sottolineare come ancora oggi le lenti attraverso le quali i media tendono a vedere il mondo appartengono a persone di genere maschile. Su questo tema è tornata l’altro giorno a discutere su «Mother Jones» una delle due fondatrici di VIDA, Erin Belieu, chiamata a commentare il fatto che tra i finalisti a un prestigioso premio giornalistico americano, il National Magazine Award finalists, neanche una donna sia stata inclusa nelle categorie più importanti, dal reportage alle inchieste, dai profili agli approfondimenti. Osserva Belieu: «Nulla togliendo alla loro bravura, è interessante notare come le poche giornaliste nominate per il premio si occupino quasi esclusivamente di “cose femminili”: il cancro al seno, le spose minorenni, l’immagine del corpo delle donne». 
Tutti argomenti importanti, per carità , si affretta ad aggiungere la co-fondatrice di VIDA. Ma, si chiede, «è possibile che le donne in una redazione si vogliano occupare solo di “questioni di donne”?». E cita una amica che «definisce questo tipo di segregazione intellettuale come “il ghetto delle tette e delle cosette”». Di questi dati, conclude Belieu, «dovrebbero ricordarsi i capiredattori al momento di assegnare i diversi servizi. Ma ci piacerebbe anche che le giornaliste dicessero: “Ehi, ho autorevolezza, ho esperienza, possiedo una prospettiva unica sul mondo in quanto persona, sono in grado di scrivere quello che voglio”».


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