by Sergio Segio | 16 Aprile 2012 19:02
Sei matto, ti dicono. E hai commesso un reato. Ma sai che non è così. Sono “loro” che ti hanno incastrato e portato qua dentro. In un carcere che non è un carcere. Un manicomio che non è un manicomio. Un ospedale psichiatrico giudiziario. Qui ci finiscono quei criminali che hanno commesso il reato perché sono pazzi. Ma tu non lo sei. Tu hai reagito per difenderti. E ora ti imbottiscono di farmaci. Ti intontiscono. Dicono di farlo per il tuo bene. Per guarirti. Perché tu non sia più pericoloso per gli altri.
Sono queste, spesso, le sensazioni di chi entra in Opg. Di chi è giudicato “incapace di intendere e di volere”. E per questo deve scontare un periodo di reclusione in una struttura che garantisca, e imponga, la cura. Il ritorno in libertà avviene solo quando l’individuo non è più considerato “socialmente pericoloso”. Decisione che spetta al magistrato di sorveglianza, su suggerimento dello psichiatra. Se la terapia non funziona il rischio è non uscire più. Ipotesi ancor più probabile se sei rinchiuso in uno dei cinque Opg a prevalenza detentiva: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Napoli, Reggio Emilia. Meno psichiatri, meno infermieri, meno attenzione alla cura del paziente.
Castiglione delle Stiviere è l’unico Opg a prevalenza sanitaria, dove la sola barriera tra i pazienti e la libertà sono le alte cancellate di recinzione. Niente sbarre, niente “sbirri”. Solo psichiatri e infermieri. Molti malati di mente che sono arrivati da altre strutture, qui fanno più fatica. A partire dal rispetto delle regole: ti devi lavare, non puoi dormire tutto il pomeriggio, non puoi fumare più di 30 sigarette al giorno, ti devi curare. “Era meglio Montelupo”, dice un detenuto. “Lì almeno potevo fare quello che volevo e non venivano a rompermi il c…”. Chi si sente sano vuole esercitare il proprio libero arbitrio, non vuole essere trattato come un demente. “Per questo la cosa più difficile per i pazienti”, dice Ettore Straticò, psichiatra primario della sezione maschile, “è ammettere a se stessi di essere folli e autori di reato”.
Appena un detenuto arriva a Castiglione, il tempo che impiega per ambientarsi varia da tre giorni a tre settimane. “Solo in caso di grave pericolo ricorriamo anche alla contenzione fisica, ma la norma è cercare di parlare con ognuno. È importante che capisca che qui l’obiettivo è farlo stare meglio perché possa uscire, una volta terminata la misura di sicurezza”, afferma Straticò. Dopo l’ingresso sono previste delle sedute per individuare di quale psicosi soffra il paziente, così da potergli somministrare un trattamento farmacologico adeguato. “Siamo un gruppo di lavoro multidisciplinare. Il confronto è fondamentale per essere certi di curare il paziente con la terapia migliore”. È il primo passo per poi procedere con gli incontri rivolti all’analisi e all’accettazione della propria malattia mentale. Sono molti i pazienti a lamentarsi per gli effetti collaterali delle medicine: dalla lentezza muscolare all’impotenza. “I farmaci sono molto meno invasivi di un tempo, ma qualche effetto lo hanno comunque”, ammette Straticò.
Alcuni pazienti non vorrebbero assumerli. Pensano di essere persone assolutamente normali, e detestano quelle pastiglie che li stordiscono. Non capiscono da quale malattia dovrebbero guarire. “Non è possibile rifiutare la cura”, continua Straticò, “e ogni tanto capita che ci siano episodi di scontro, anche fisico, con i pazienti. Da quando sono qui non sono mai stati segnalati atti di violenza da parte del personale sanitario, vendette o ritorsioni, ma se un degente ti aggredisce, devi difenderti”.
Roberto Castagna e Antonio Barletta sono due operatori sanitari che hanno l’aria di chi, se è il caso, sa come difendersi. Stanno chiacchierando fuori dal seggio per l’elezione della loro rappresentanza sindacale e spiegano che sì, ogni tanto ci sono degli scontri con i degenti. “Lo scorso mese un infermiere si è rotto una rotula dopo che un paziente gli ha tirato addosso una sedia”, dice Antonio, il più giovane dei due. Ha il collo taurino, mani grandi e callose e lo sguardo buono. Indossa una felpa del Napoli. “Il problema”, prosegue, “è che spesso la struttura è sovraffollata, e questo è un male sia per noi che per i pazienti”. Gli dà ragione anche Roberto, capelli grigi, fisico basso ma robusto. “Noi abbiamo una preparazione specifica, con aggiornamenti professionali ogni tre mesi. Ma se costringiamo i detenuti in spazi ristretti è più facile che litighino ed è più difficile per noi intervenire. Rischiamo di farci male”. Ora il numero è sceso, ma ci sono stati mesi in cui a Castiglione c’erano più di cento persone oltre il previsto.
Quanto agli episodi di violenza raccontati dai detenuti, Antonio fa un sorriso amaro. “Non è vero che noi picchiamo i pazienti o li chiudiamo in cella di isolamento per giorni”, racconta. “Al massimo, ma solo se uno sta avendo un attacco di quelli brutti, lo teniamo isolato per due ore, finché non gli passa”. La psicosi e la paranoia, poi, ingigantiscono questi episodi nel ricordo di alcuni detenuti. Che a volte non sono aiutati dalle famiglie a distinguere la realtà da ciò che la mente fa credere loro. “Ogni tanto i parenti – dice Antonio – fanno il doppio gioco. Ai pazienti dicono che non vedono l’ora di riabbracciarli e a noi invece “per carità , tenetelo voi”. Questo non aiuta persone che sono già di per sé inclini alle manie di persecuzione”.
Uscire da Castiglione delle Stiviere è possibile. La maggioranza dei detenuti in cura ce la fa. Se la terapia ha avuto successo, prima si è mandati in comunità terapeutica e poi, se anche lì tutto è andato bene, inizia un progressivo reinserimento nella società . Ma il primo ostacolo è riconoscere il motivo della propria detenzione. Ed è il passo più difficile. Perché, per chi soffre di una malattia invisibile, è assurdo accettare di essere matto.
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