NIENTE MODELLO TEDESCO
Si “ascolta”, si dialoga, si consulta – come con qualsiasi interlocutore degno di un rapporto di cortesia – ma non si negoziano le soluzioni che il governo proporrà al vaglio e alle determinazioni finali del Parlamento. A questo cambiamento nello “stile” di governo, Monti teneva non meno che al contenuto stesso della riforma.
Il no della Cgil, la mobilitazione dei lavoratori e l’altolà del Pd hanno bloccato questa filosofia per molti versi reazionaria. Le forze sociali non sono una lobby. Per la rappresentatività che gli appartiene e per la consistenza degli interessi che rappresentano, i sindacati non possono essere messi al margine di un democratico processo politico. La marcia indietro imposta al governo è almeno da queto punto di vista un successo da non banalizzare. Ciò non toglie che il compromesso sul’articolo 18 rimane ambiguo e, come vedremo più avanti, rischia di essere fortemente lesivo dell’autonomia del giudice nella decisione relativa al possibile reintegro.
Vale la pena di ricordare che il progetto originario del governo non aveva inventato nulla, se non copiato l’ultima versione del modello spagnolo di riforma del lavoro. Mariano Rajoy, a capo del nuovo governo conservatore spagnolo, aveva fatto passare a metà febbraio, con un decreto legge, un provvedimento di piena liberalizzazione dei licenziamenti individuali per ragioni economiche, sanzionandone l’eventuale illegittimità con un indennizzo risarcitorio ulteriormente ridotto. Un giudice con le mani legate, al servizio della parte sociale più forte.
Ma se la nuova versione della riforma Monti-Fornero scongiura l’americanismo del modello spagnolo, rimaniamo tuttavia lontani dal “modello tedesco”, un modello più efficiente e più limpidamente protettivo delle ragioni del lavoratore o della lavoratrice ingiustamente licenziati. Quanto all’efficienza, è il giudice che, in Germania, nella prima fase del ricorso, opera un tentativo di conciliazione. Per la sua stessa autorevolezza, è messo in grado di acquisire tutti gli elementi di prova della legittimità del provvedimento, avvalendosi anche delle valutazioni del Consiglio di fabbrica (che rappresenta tutti i lavoratori, iscritti o no al sindacato), al quale il provvedimento dell’azienda e le sue motivazioni devono essere comunicate in via preventiva.
Il momento della conciliazione sotto l’egida del giudice porta nella maggioranza dei casi a un accordo fra le parti o attraverso una revisione della posizione dell’azienda, o attraverso un compenso risarcitorio a favore del lavoratore. Se il tentativo di conciliazione esperito dal giudice in sede stragiudiziale si rivela improduttivo, si apre la fase giudiziaria in senso stretto. A questo punto lo scenario cambia. Rientrato nella sua su funzione giudicante, il giudice ha il compito specifico di verificare sulla base di tutte le circostanze acquisite se il licenziamento è legittimo o illegittimo. E se il licenziamento è giudicato illegittimo, per mancanza o insufficienza dei requisiti addotti come giustificazione, il giudice decreta puramente e semplicemente l’annullamento del provvedimento e, come logica conseguenza, il reintegro del lavoratore nella condizione antecedente al provvedimento.
Nella proposta del governo Monti la fase della conciliazione resa obbligatoria è prevista in una sede amministrativa, così come già esiste, senza peraltro aver dato risultati significativi rispetto alla soluzione del contenzioso. Una volta che l’obbligo del tentativo di conciliazione si sia concluso senza esito, la parola passa al giudice. Ma, secondo la riforma, il ruolo del giudice e le garanzie per il lavoratore sono rese meno trasparenti, più incerte e meno garantite dalla distinzione, per molti versi arbitraria, fra illegittimità per “manifesta insussistenza” e illegittimità in quanto tale.
Mettiamo il caso che il giudice non consideri “manifestamente insussistente” la motivazione addotta dall’impresa in ordine a una riorganizzazione in corso nel sistema produttivo che riduce una determinata tipologia di mansioni nel cui ambito è inquadrato il lavoratore licenziato. Ma, al tempo stesso, il giudice prende atto nel corso del dibattimento del fatto che il lavoratore può essere ricollocato in una diversa mansione o trasferito in un’altra unità produttiva senza pregiudizio per l’economia dell’organizzazione. Sulla base di tale fondato argomento, il giudice sentenzia l’illegittimità del provvedimento per mancanza di una giustificata motivazione; ma, non ricorrendo la “manifesta insussistenza” del motivo addotto dall’impresa che fa riferimento a un processo organizzativo effettivamente in corso, non potrà reintegrare il lavoratore, dovendo limitarsi a un risarcimento sostituivo.
Può essere che i giuristi del lavoro si eserciteranno nello stabilire i confini interpretativi di questa distinzione arbitraria. Ma è un modo confuso e fraudolento di regolare un aspetto essenziale del rapporto di lavoro e della giusta protezione che spetta al lavoratore o alla lavoratrice di fronte a un atto giudicato illegittimo, il cui annullamento dovrebbe ripristinare come logica conseguenza lo stato antecedente. Tanto più che la lesione sanzionata dalla pronuncia di illegittimità incide profondamente nella condizione della persona che è rimasta vittima di un’azione riconosciuta illegittima.
Fin qui la questione dell’articolo 18. Ma la riforma del mercato del lavoro dei “Professori” presenta molti altri punti che non innovano, se non marginalmente, nelle questioni della precarietà , lasciando in vita un numero insensato di modelli contrattuali di ingresso. Dall’altro, andando verso una riforma degli ammortizzatori che, in nome di una malintesa unificazione, stabilisce garanzie del reddito per chi ne rimane privo che sono palesemente al di sotto degli standard europei. Ma questo è un altro discorso, non meno rilevante di quello sull’articolo 18, sul quale i sindacati dovranno tornare con la massima attenzione e la necessaria mobilitazione nel corso del dibattito parlamentare.
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