Nel frattempo a Kabul…

by Editore | 18 Aprile 2012 7:39

Loading

KABUL – Dopo quasi 24 ore di esplosioni, battaglie e scontri cruenti, Kabul sembra tornare alla normalità . E il quotidiano a prevalere sugli episodi clamorosi di domenica e lunedì, quando una serie di attacchi simultanei hanno tenuto in scacco alcune parti della città . Per le strade, segnate dal solito via vai e dallo strombazzare ininterrotto delle automobili, si esercita la nobile arte di arrangiarsi. Nei palazzi del potere e nelle sedi diplomatiche, ci si interroga invece su alcuni avvenimenti recenti che, «nascosti» dal fragore delle armi, sono altrettanto significativi degli attacchi dei talebani (o della rete Haqqani). E che potrebbero segnare una svolta nel burrascoso rapporto che lega Washington e Kabul.
Sono mesi che si parla dell’Accordo di partenariato strategico che dovrà  sigillare l’amicizia di lunga durata tra gli Stati Uniti e l’Afghanistan. Quell’accordo, assicurano tutti, dovrà  essere firmato a ridosso del prossimo summit della Nato, previsto per maggio a Chicago. Finora, le due parti non hanno ancora trovato la quadratura del cerchio. Due memorandum siglati di recente potrebbero però rendere le cose più facili. Il primo risale al 9 marzo, e prevede che, al massimo entro il 9 settembre, i detenuti rinchiusi nel carcere di Bagram passino sotto la responsabilità  afghana. Karzai insisteva da tempo sulla questione, rivendicando sovranità . Gli Stati Uniti rispondevano di non fidarsi troppo del modo in cui le autorità  afghane trattano i detenuti (ma i rapporti della Commissione indipendente dei diritti umani di Kabul e della missione Unama segnalano abusi e torture anche nelle carceri gestite dagli «stranieri»). A marzo, finalmente, l’accordo. Fortemente voluto da Karzai, oltre che per il significato simbolico, per il ben più prosaico effetto che avrà  nel corso dei futuri negoziati con i talebani, quando il presidente afghano potrà  giocare anche la carta del rilascio dei detenuti. 
È di pochi giorni fa, invece, la firma del memorandum di intesa tra il ministro della Difesa afghana Abdul Rahim Wardak e il generale John Allen, a capo delle forze Isaf-Nato. Secondo l’accordo, spetta a Kabul, e non più agli americani, ordinare e condurre operazioni speciali. Il testo è sufficientemente vago da consentire alle forze speciali a stelle e strisce e agli uomini della Cia di continuare i loro «sporchi affari», nota Kate Clark, ricercatrice dell’Afghanistan Analysts Network, che ha spulciato il testo. E non è chiaro se include anche i raid aerei. Per Karzai è comunque una piccola vittoria, perché può sbandierare all’opinione pubblica di essere riuscito a mettere fine alle tanto criticate incursioni nelle case degli afghani. Secondo James Cunningham, vice ambasciatore statunitense a Kabul, entrambi i memorandum dovranno servire, oltre che a facilitare i rapporti con il governo afghano, a favorire il processo di pace con i movimenti antigovernativi. Che gli Stati Uniti – ha precisato Cunningham pochi giorni fa – auspicano siano gestiti direttamente da Kabul. Anche da questo punto di vista, una vittoria per Karzai.
Dopo diversi mesi di dispute, discussioni infuocate, ripensamenti e silenzi rancorosi, il presidente afghano ha infatti imposto il nuovo leader dell’Alto consiglio di pace, l’organo istituito alla fine del 2010 con il compito di intavolare il negoziato con i movimenti antigovernativi. A prendere il posto di Baranuddin Rabbani, fatto fuori dai ribelli lo scorso settembre, sarà  il figlio, il quarantunenne Salahuddin. Con la proverbiale scaltrezza politica che gli alleati gli riconoscono e i nemici gli rinfacciano, Hamid Karzai è riuscito dunque a far digerire la nomina di Salahuddin Rabbani anche ai tanti membri del Consiglio che erano contrari. Tra questi, nomi di spicco del panorama politico nazionale, protagonisti prima delle guerre che hanno insanguinato il paese e, ora, del nuovo ordine legittimato dalla comunità  internazionale: Sigbatullah Mujadeddi, Pir Sayed Ahmad Gailani e lo stesso capo del potente Consiglio degli Ulema, il mawlawi Qiyamuddin Kashaf. Ufficialmente, considerano Rabbani junior troppo giovane e inesperto per guidare un processo così complicato come i colloqui di pace con i talebani e gli altri gruppi della variegata galassia guerrigliera. Dietro le quinte – come fa notare l’analista Gran Hewad – temono invece che ancora una volta Karzai punti, più che al progresso del paese, alla sua personale agenda politica. Dove c’è scritto che rapporti più solidi con il partito Jamiat-e-Islami – di cui Rabbani è leader -, non possano che far bene. Soprattutto ora, nel bel mezzo della transizione (Inteqal), il processo che prevede il progressivo trasferimento della responsabilità  della sicurezza dalle forze straniere a quelle afghane, e il ritiro totale (o quasi) delle truppe nel 2014. 
Se oggi la comunità  internazionale pensa a come far le valigie senza darlo troppo a vedere, e soprattutto senza ammettere la pesante sconfitta diplomatico-militare, i leader politici afghani pensano già  al dopo 2014. Tessendo nuove alleanze, rinverdendo quelle passate e sgomitando con ogni mezzo possibile per “un posto al sole” nel nuovo ordine che verrà , quale che sia. 
La nomina di Rabbani a capo dell’Alto consiglio di pace ha dunque scatenato polemiche e alzate di scudi, qui a Kabul. Ma c’è anche chi guarda alla questione con occhio più laico e pragmatico: Idrees Zaman è il direttore di Cooperation for Peace and Unity, un centro di ricerca fondato nel 1996, specializzato nei temi del peacebuilding e della giustizia sociale. Quando lo incontro, mi dice che «dopotutto Rabbani non è così male. Perlomeno non gli possono essere attribuite le nefandezze compiute in passato qui in Afghanistan. È vero che avrà  vita dura, nel gestire un organo che include vecchie volpi della nostra storia più recente, ma proprio per questo ha un pedigree rispettabile, senz’altro più trasparente di quelli che lo criticano. Inoltre – aggiunge Zaman – è un uomo colto, preparato, con una formazione accademica di tutto rispetto». Come testimonia il curriculum di Rabbani junior, che oltre ad aver lavorato per l’Onu, per il gigante petrolifero Aramco, e dal 2010 al 2011 come ambasciatore afghano in Turchia, vanta master in Arabia Saudita, Inghilterra e alla Columbia University. Di sicuro, il suo compito non sarà  facile, «anche a causa della frammentazione dei gruppi ribelli – nota Zaman -. Se l’Hezb-e-Islami di Hekmatyar sembra disposto al negoziato, la rete di Haqqani non lo è affatto». 
Quanto ai talebani, alternano segnali di apertura a chiusure più nette. Dopo aver interrotto i colloqui a fine marzo, contestando l’atteggiamento poco coerente e ondivago degli americani, pochi giorni fa sono tornati a farsi sentire con un messaggio. In cui rispondo all’ambasciatore americano a Kabul Crocker, che nei giorni scorsi in un comunicato stampa avevo paventato la possibilità  che dall’Afghanistan possa partire in futuro un attacco simile all’11 settembre, questa volta in Europa. Pura propaganda, per i seguaci del mullah Omar: «Gli afghani – recita un loro documento – non hanno mai colpito nessuno in passato e non è nelle loro intenzioni o in quelle dell’Emirato islamico d’Afghanistan farlo in futuro». Lo dicono, con altre parole, anche i ricercatori Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn nel loro ultimo libro, An enemy we created: una confutazione del mito, creato dagli americani, dell’unione tra talebani e Al Qaeda.

Post Views: 196

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/04/nel-frattempo-a-kabul/