by Editore | 11 Aprile 2012 6:02
ROMA – Da condottiero entusiasta della sua “nuova” creatura, Riccardo Muti torna in Italia sul podio della Chicago Symphony Orchestra: compagine sinfonica così formidabile che qualcuno (vedi la rivista “Gramophone”) non esita a definirla come la migliore al mondo. Dopo un giro di concerti in Russia, Muti, che governa la CSO dal settembre 2010, sta per portarla (il 23 aprile) all’Opera di Roma. Da qui partirà il suo tour italiano con questa formazione americana carica di gloria (anno di nascita: 1891). Tappe al San Carlo di Napoli (24 aprile), al Teatro Grande di Brescia (26) e al Palazzo Mauro De André di Ravenna (27).
Maestro Muti: ora, con lei al comando, pensa che la fisionomia della CSO sia cambiata?
«Ogni orchestra ha una personalità che prescinde dal direttore, ed è legata all’identità dei musicisti che la compongono. Ma un direttore può segnarla con una certa visione del suono e del fraseggio, e con una peculiare impostazione culturale. Questa è un’orchestra dal temperamento deciso, nato da un vasto patrimonio di esperienze. Ha avuto, lungo gli anni, conduzioni “forti”, a partire da quella del fondatore Fritz Reiner, sui dischi del quale è ancora rintracciabile una sonorità fantastica. Ci furono sul podio anche musicisti quali Solti e Barenboim. Credo che con me, stando a quanto è stato scritto dopo il nostro recente tour in California, abbia acquisito una cantabilità che si aggiunge alle caratteristiche di potenza. Ha più morbidezza e una maggiore espressività ».
Si è ampliato il vostro repertorio? Date spazio anche alla musica odierna?
«Certo. Conto su un Artistic Advisor del livello di Yo-Yo Ma, geniale violoncellista e mio braccio destro per l’attività sociale, gli incontri con i giovani e le iniziative che portano la musica fuori dalle sale da concerto, a comunità lontane o nelle carceri. Abbiamo commissionato nuovi pezzi a Mason Bates, “composer in residence” e dj, e ad Anna Clyne, anch’essa giovane compositrice “in residenza” a Chicago nella stagione 2011-2012. E per il 2013-’14 abbiamo chiesto a Giovanni Sollima di scrivere un concerto per due violoncelli e orchestra».
Nel programma che porta in Italia, oltre a Morte e trasfigurazione di Richard Strauss e alla Quinta Sinfonia di Shostakovich, figura la Suite sinfonica dal Gattopardo di Nino Rota, compositore eseguito tanto di rado…
«Non da me, che l’ho diretto spesso! Rota fu un personaggio-chiave nella mia vita di musicista. Fu lui a convincermi che avevo qualche qualità , e a spingere la mia famiglia a farmi studiare musica sul serio. Difendo il valore della sua opera, anche se negli anni ‘60-’70 non è stato compreso da una certa intellighenzia cultural-chic. In lui l’immediatezza è una virtù, il che non toglie che fosse profondamente consapevole della cultura musicale del proprio tempo. La sua produzione è ricca di sostanza musicale e ha uno spessore autentico, che va rivendicato e fatto conoscere».
Si può parlare delle differenze tra orchestre italiane e americane?
«Ma è un confronto impossibile! Proviamo… Gli Stati Uniti contano su un’importantissima storia sinfonica, dominata dalle Cinque Sorelle (oltre all’orchestra di Chicago, quelle di New York, Cleveland, Philadelphia e Boston), e caratterizzata da una diffusione capillare di orchestre: migliaia, se si considerano le tante Community Orchestras. Invece tutta la vicenda italiana è più operistica che sinfonica. Per decenni le nostre orchestre hanno dovuto fare solo opera, spesso poste al servizio del palcoscenico e avvilite nella fossa. Se ci fossero una ripresa culturale e una riforma che consentissero un’organizzazione diversa, se il quadro culturale venisse rinnovato, il cammino potrebbe essere fruttuoso. Le premesse musicali ci sarebbero, ma sono le condizioni generali del Paese, riguardo alla musica, a non facilitare l’operazione. Ed è necessario recuperare i troppi anni in cui l’orchestra è stata schiava dei capricci delle ugole, non aiutata da maestri del podio accondiscendenti».
Lei sarà di nuovo a Roma per dirigere Attila, che debutterà all’Opera il 25 maggio con regia di Pizzi.
«Io amo tutto Verdi, inclusa quest’opera percorsa da anticipazioni di più maturi capolavori verdiani, e per esempio il duetto tra Attila e Papa Leone rammenta quello tra Filippo e il Grande Inquisitore nel Don Carlo. Quand’ero alla Scala avevo fatto mettere come musica sul nastro del centralino, per le chiamate in attesa, il tema del preludio di Attila, e porta lo stesso nome il mio cane, un Boston Terrier… Ma questo non c’entra! Voglio dire: è un’opera anche affettivamente rilevante per me».
Come la suoneranno i musicisti a Roma? E’ fiducioso?
«Il teatro è in crescita, e apprezzo i progressi di orchestra e coro, con cui ho stabilito un bel legame. E all’Opera aprirò la prossima stagione con Simon Boccanegra: ancora Verdi, che non smetterò mai di scoprire».
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