Mullah Omar, Hekmatyar e Haqqani, il vero conflitto è sul dopo Karzai

by Editore | 17 Aprile 2012 7:41

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Si può chiamare «offensiva di primavera» questa ennesima battaglia nella capitale e in altre zone del paese. Ma vista da vicino, ha solo l’immagine devastante del sangue che sembra segnare come una cifra indelebile le pagine degli ultimi trent’anni di storia afgana. La distanza che separa la nostra residenza dalla realtà , dall’area cioè dove si è svolta l’azione più eclatante e dove sono entrati in scena gli elicotteri in una zona illuminata a giorno dai riflettori nell’alba ancora acerba di ieri, è la stessa che si registra nelle ipotesi. Più ti avvicini alla rotonda tra Wazir Akbar Khan e Sharenaw, quando ormai la battaglia è finita, e più ti rendi conto di quanto approssimativo era il primo resoconto, basato su testimonianze imperfette, sulle immagini discontinue della tv, sulla mappa anch’essa discontinua di una città  che è come una fungaia: basta un’acquazzone e nasce un palazzo.
Allo stesso modo più ti avvicini alla ragioni che dovrebbero comporre un’analisi dignitosa per tradurre quanto succede, più ti rendi conto che si basa su fonti imperfette e sulla potenza della propaganda: della Nato, del governo, della guerriglia, dei vari servizi segreti. Che le immagini, chiare nella tua stanza d’albergo, si confondono appena esci per sentire un’altra campana.
Così anche andare sul luogo del delitto aiuta sino a un certo punto. Capisci in effetti la dinamica, ma ti chiedi se è vero che gli afgani, come si dice qui, han fatto tutto da soli. Se è vero che tra i terroristi c’erano dei pachistani, se hanno in effetti usato i burqa per coprirsi la faccia… Il quadro politico è confuso come le ragioni di una strategia che pur qualche mira deve avere ma che, nel caso specifico, ha segnato punti solo per la squadra di Karzai. La tattica della casa in costruzione ormai è consolidata e permette di armare un mini esercito con bracciate di Rpg nascosti nei sacchi di sabbia e di cemento. Ma per fare cosa? 
I commando sono composti da «martiri» che non molleranno fino alla fine, il che dà  la possibilità  alle forze di sicurezza di uccidere senza farsi problemi. La gente plaude contenta: «Lo meritano quei bastardi». E nessuno nasconde l’orgoglio che siano stati solo afgani a fare pulizia. Si, una dozzina di shahid tiene in scacco la città  per 18 ore ma tutti sanno ormai che non si spiana subito l’edificio solo per evitare vittime civili: che si aspetta che salgano ai piani alti per smitragliare con gli elicotteri. Sale il consenso verso la polizia, diminuisce per i talebani. Perché allora?
Le tesi più accreditate sono due: la prima dice che è un modo di mullah Omar per alzare il prezzo, per condizionare il negoziato sotto traccia malamente gestito dagli americani. Per «farsi sentire», come recita il mantra più gettonato. 
La seconda, più approfondita ma anche quella favorita dagli afgani e soprattutto dall’intelligence locale, è che sia opera degli Haqqani, fazione radicale più vicina all’Isi, i servizi segreti del Pakistan, oltreché ad Al Qaeda, da cui (contrariamente a Omar) gli Haqqani, una vecchia famiglia di mujaheddin fondamentalisti e filopachistani, non ha mai preso le distanze. Sarebbe insomma il modo per Islamabad di mettere i piedi nel piatto di un negoziato che ha escluso il Pakistan e che Omar si gestirebbe in autonomia con gli inviati di Washington. Ma c’è anche una terza tesi non priva di seduzione.
E’ quella della concorrenza tra i tre gruppi principali in cui è divisa la resistenza a Karzai: con Omar stanno i talebani doc, nazionalisti e fondamentalisti ma non jihadisti, né per il trionfo della rivoluzione qaedista. E’ il gruppo dove alligna un dibattito interno anche duro tra «modernisti» (se si può passare il termine) e «tradizionalisti», comunque orientati a trattare, ancorché da una posizione di forza: quindi pronti a rivendicare come «talebana» ogni azione d’avanguardia. Poi ci sono appunto gli Haqqani ma che se la devono vedere con la supremazia della shura di Quetta (il consiglio diretto da Omar) e soprattutto con la rete di Gulbuddin Hekmatyar, uomo militarmente potente, in grado anche di influenzare il parlamento e il più consapevole di come funziona la macchina del potere a Kabul. 
Ora, la shura di Omar tratta con Washington direttamente e Gulbuddin ha mandato una delegazione a Kabul. Gli Haqqani, bestia nera, sembran tagliati fuori ma forse fan comodo anche gli altri due gruppi. Questa «concorrenza» funzionale (una volta si sarebbe detto «convergenze parallele») non sarebbe comunque una lettura tagliata col coltello. I vasi sarebbero pur sempre comunicanti e, in quanto tali, confusi. Nel rompicapo afgano è forse l’ipotesi più politica e la più convincente: una geometria variabile dove l’interesse di fazione è, ma non sempre, subordinato a un obiettivo comune. Cacciare gli stranieri e mettere in difficoltà  Karzai. Poi si vedrà .

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