Monti incassa il «sì» e ora vuole creare un «laboratorio Italia»

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ROMA — L’hanno chiesto a New York e a Londra, a Bruxelles così come a Pechino: imprenditori, operatori di Borsa, banchieri d’affari, primi ministri, presidenti di Fondi sovrani. E ora lui, il presidente del Consiglio, può dire di averli accontentati e di sperare che le nuove norme, quando saranno vigenti, modificheranno scelte micro e macroeconomiche, in Italia e all’estero, rilevanti per lo sviluppo del nostro Paese.
Non per nulla, a dispetto del tradizionale understatement, Monti definisce «storico» il passaggio. Non è un aggettivo che il suo vocabolario solitamente prevede, sottolineano nello staff. Ma per tutti coloro, governanti e non, che in questi mesi ha incontrato la credibilità  dell’Italia, o almeno una sua fetta, è legata ad un diverso tipo di normativa sul mercato del lavoro. 
Persino Lou Jiwei, il presidente della China Investment Corporation, Fondo governativo cinese, ha dedicato parte dell’incontro con il nostro premier, la settimana scorsa, ai presunti difetti delle regole italiane del lavoro, almeno viste con l’occhio di chi ha investito in giro per il mondo 44 miliardi di dollari, ne ha in cassa oltre 400, e ha dedicato finora al nostro Paese un’attenzione pari allo 0,08% dei suoi affari. 
La legittimità  del licenziamento per motivi economici, sia in termini squisitamente d’immagine che in termini pratici, disegna un nuovo possibile contesto d’investimenti e non a caso ieri il premier ha parlato di «quelli dall’estero come di quelli italiani», per rimarcare non solo l’auspicio di riuscire ad attirare nuovi soldi dall’estero, in termini sia commerciali che finanziari, ma anche di poter invertire o arrestare una tendenza, che oggi vede buona fetta della nostra industria manufatturiera in continuo esodo, da ultimo verso la vicina Serbia.
Ricordano nello staff di Monti che il testo che ieri pomeriggio è stata vagliato dal Quirinale prevede un modello che ha non solo il timbro e l’accettazione dei tre partiti di maggioranza, ma soddisfa anche le richieste dei principali attori economici internazionali, compresa quella Bce di Mario Draghi che la riforma aveva inserito qualche mese fa, in carica Berlusconi, nell’elenco dei passi necessari per uscire dalla crisi. 
Sommata alla riforma delle pensioni, per l’ufficio del presidente del Consiglio, nel momento in cui anche questo provvedimento sarà  legge, produrrà  «un impatto enorme all’estero», in grado di fare dell’Italia «un caso positivo, eccezionale, magari anche da imitare», in alcune Cancellerie internazionali.
Ovviamente ognuno porta acqua al suo mulino, l’enfasi si può comprendere, ma il riferimento ad un possibile case study politico è stato suggerito a Monti e ai suoi assistenti, da ultimo, in Giappone, in una delle conferenze svolte a Tokyo, dove insieme ai complimenti il Professore è stato anche investito da un’ansia di imitazione, in un contesto che storicamente è portato a vedere il sistema politico come incapace di produrre riforme durature e incisive.
Dell’accordo raggiunto con Bersani, Alfano e Casini una cosa ha colpito il presidente del Consiglio positivamente: la capacità  di ognuno di rinunciare alla soddisfazione di tutti gli interessi di cui sono portatori i partiti che dirigono. Nell’interesse del Paese e di una riforma che il premier non voleva stravolta gli accordi e le modifiche definite in extremis delineano una capacità  di sacrificio, «di saper esercitare la leadership» guardando oltre la stretta rappresentanza, come ha detto in un’intervista a La Stampa, che fa ben sperare per il futuro.
Considerare mercati finanziari, Unione europea, analisi comparate come parte di una rappresentanza nuova, può far storcere il naso a qualcuno, ma può allargare lo spettro degli interessi di cui tener conto nell’opera di rinnovamento di un Paese che nelle classifiche internazionali è spesso affiancato a Stati del Terzo Mondo. E questo per Monti è un dato che potrebbe e dovrebbe passare in eredità  anche alla prossima legislatura, quando la sua esperienza di governo sarà  terminata.
«L’efficacia normativa, politica ed economica» della riforma, con le ultime modifiche e limature, dopo gli incontri con i leader di Pd, Pdl e Terzo Polo, «è rimasta intatta», sottolineano ancora a Palazzo Chigi, confidando in un accordo politico che potrebbe anche scongiurare l’apposizione di un’ennesima fiducia nel corso dell’iter parlamentare. 
Ieri Monti ha fatto capire di ritenere l’accordo con i tre partiti della sua maggioranza abbastanza blindato, in grado di poter «proteggere» l’equilibrio complessivo del provvedimento dalle pur legittime e doverose richieste di correzioni che verranno avanzate da Camera e Senato.
E nel citare Napolitano, e le richieste del Colle di ridurre al minimo l’uso della fiducia, il premier è apparso convinto che si possa arrivare ad un’approvazione definitiva del testo anche con un percorso ordinario. Di certo, rimarcano ancora nel governo, tutti hanno ottenuto qualcosa che chiedevano, rispetto alla prima stesura: il Pdl maggiore flessibilità  in entrata, su partite Iva e nuova disciplina del part time, il Pd con l’introduzione di un’ipotesi di reintegro sul posto del lavoro, almeno nel caso di licenziamenti le cui ragioni economiche vengano giudicate manifestamente insussistenti. «Ognuno ha rinunciato a qualcosa e allo stesso tempo ha ottenuto qualcosa». 
Ora la speranza è che sulle linee portanti della riforma non si apra più un dibattito squisitamente politico.


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