by Editore | 10 Aprile 2012 6:12
Se n’è andata una ragazza. Una vecchia e grande ragazza che ha combattuto battaglie civili per tutta la vita, volontaria, militante, giornalista e soprattutto persona. Con allegria. L’allegria di chi sa di compiere un dovere e di esprimere in quel modo il suo amore verso gli altri. Senza dimenticare l’amore verso se stessa che si chiama dignità .Insieme a tanti altri sentimenti intensamente vissuti, Miriam Mafai aveva nel sangue anche la capacità e la voglia di comunicare; il giornalismo per lei fu dunque una passione e una vocazione prima ancora che una professione. Una passione che favorì l’incontro tra la sua militanza di parte e lo sforzo di capire le ragioni degli altri che è la pre-condizione per il dialogo senza pregiudizi e quindi la possibile sintesi che assicura la convivenza sociale al tempo stesso dialettica e dinamica.
La conobbi nell’ottobre del 1975. Ero nel mio ufficio all’Espresso in via Po 12 a Roma, quando il telefono squillò e una voce femminile mi chiese: «Lei è Scalfari? Sono Miriam Mafai. Vorrei vederla, è possibile?». Non c’era nessun imbarazzo, nessuna esitazione in quella voce, ma sicurezza e simpatia. Ci incontrammo il giorno dopo. Mentre ci salutavamo la guardai con curiosità per cogliere qualche eventuale somiglianza con suo padre e sua madre, due grandi artisti nella storia della pittura moderna. Aveva qualche cosa dell’uno e dell’altra ma soprattutto quel volto di allegria, simpatia e intelligenza che ha conservato per tutta la vita, ancora fino a poche settimane fa quando già il male aveva scavato dentro di lei il solco dal quale alla fine la vita è volata via.
Ci siamo subito dati del tu. Mi disse: «”Del giornale che vuoi fare so già qual è il tuo progetto, il resto lo conoscerò mentre lavoreremo”. “Ti dovrai dimettere da Paese Sera, ti dispiace?” rispose: “L’ho già fatto ieri” “prima che ci parlassimo” “non avevo dubbi”».
Lei era fatta così, era una donna decisa, emancipata ma legatissima alla famiglia e al suo compagno che chiamava Nullo col suo nome di battaglia dell’epoca della Resistenza. Era Giancarlo Pajetta. Quando lui morì, per la prima volta vidi un velo di tristezza sul suo viso. «Se n’è andata metà della mia vita» mi disse. Ma l’altra metà era così ricca di intelligenza e di motivazione da compensarla di quella perdita e di quel ricordo che ha portato nel cuore per tutto il resto della sua vita.
Per Repubblica è stata una presenza costante di primissima fila. Se ne va nello stesso arco di pochi mesi in cui l’hanno preceduta D’Avanzo, Tutino e Bocca.
In ricordo la sua intelligenza e la sua allegria.
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