Marshall, l’uomo che inventò il suono del rock ‘n roll

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Quella scritta bombata, Marshall. L’amplificazione dei sentimenti e delle emozioni, il nome che diede voce alla ribellione, al grido generazionale. Il marchio che rivoluzionò la storia del rock, sul finire di quegli Swinging Sixties, durante quel passaggio epocale che marchiò a fuoco l’istinto generazionale, togliendo il velo di malizia, innaffiando chiome, basette e barbe da impegnati.

Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Pink Floyd, Black Sabbath. Gli anni Settanta trasformarono in ruggito ciò che prima era ballata dolce e melodica, tramutarono il pizzico soave di corde in grido acuto e lamentoso, in riff potenti e impetuosi, in feedback urlanti, a testimonianza di come il rock volesse accompagnare le esigenze di un movimento giovanile fino ad allora conservato in una scatola ovattata. Morbide pareti in cui bastava qualche timidissima ventata di ribellione per alimentare scandalo e sgomento. All’inizio degli anni Sessanta Beatles e Rolling Stones si fecero portavoce della rottura con il passato.  Il loro suono, però,  aveva ancora il sapore del miele, incantava le ragazzine, animava le feste da primi baci, non rompeva i silenzi, ma li coccolava.

Certo, le chitarre elettriche esistevano già .  Già  dagli anni ’40 si era intuito che la scarica elettrica avrebbe potuto dare nuova linfa e nuova decodificazione del messaggio blues, già  marche prestigiose come Fender, Les Paul o Gibson, avevano cominciato a produrre e a mettere sul commercio amplificazioni per chitarra. Jim Marshall, però , con l’intuizione propria di chi era musicista prima ancora di essere tecnico o business-man, creò l’universo parallelo del suono: non più esclusiva amplificazione, ma arte e passione nel modellare tensioni elettriche.

Ecco dunque l’amplificatore inteso come scatola magica, in cui il chitarrista poteva trasformare a suo piacimento pennate fino ad allora troppo piatte per esprimere sensazioni così impetuose e varie. Non più strumento di diffusione, ma vero e proprio strumento musicale. Non soltanto volume, ma vera e propria arte del suono. Senza Jim Marshall non avremmo potuto scuotere teste, gridare con il dito puntato al cielo, accendere e incanalare quell’energia propria di chi rompe i silenzi e fa breccia sui muri della melodia, partendo dal silenzio più assordante. Scoprendo al di là  della piccola crepa un universo inesplorato, dove il miele si nasconde tra le righe, e accompagna impulsi stridenti a voltaggi altissimi.

Senza Jim Marshall, Pete Townshend non sarebbe stato Pete Townshend, Hendrix non sarebbe stato Hendrix. Senza Jim Marshall il Metal non si sarebbe chiamato Metal. Nessuno si sarebbe sentito un rocker consumato, premendo semplicemente un interruttore.
Perché in fondo, il rock venne pasciuto in quel negozio di musica ad Hanwell, non da un imprenditore, ma da un musicista, non da un business-man, ma da un vero cultore di musica e  arte. L’unico uomo che creò un diverso concetto di “muro”. Il muro eretto per emozionare, per  innalzare e per abbattere. Il muro edificato per veicolare messaggi, sentimenti, palpitazioni e spasmi artistici, in un mondo di muraglie tese a conservare, a inibire, e a strozzare libertà .


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