by Editore | 5 Aprile 2012 3:22
ROMA – «Pollo alle prugne è mélo, commedia, fumetto, sogno, fantasia. I livelli sono almeno tre, il primo è realistico, i personaggi sono esseri umani, non sono eroi, possono essere simpatici ma anche antipatici. Il protagonista, Nasser Ali, non ama suo figlio, e capita nella vita, non è vero che tutti i genitori amino i loro bambini, altrimenti qualcuno mi spieghi da dove vengono tutti quei ragazzini infelici che diventeranno adulti infelici. Un altro livello è la crisi esistenziale del protagonista, che non può più vivere senza il suo violino e la sua musica e decide di morire. Poi questa è una storia che si svolge negli anni Cinquanta, quando il colpo di stato in Iran ha distrutto il sogno della democrazia, e la donna amata si chiama Irana, l’amore impossibile di Nasser Ali è evidentemente una metafora del legame con un paese che si ama, è lì, ma si è perduto. C’è tanto, c’è troppo nel mio film, lo so, ma è il film che volevo fare, io amo il “troppo”, amo Fellini e il cinema senza limiti alla fantasia, nessuno mi può togliere il diritto di essere eccessiva».
Con le tinte forti della sua bellezza mediterranea, lo sguardo diretto e acceso dall’intelligenza, Marjane Satrapi è meravigliosamente eccessiva anche nel parlare di Pollo alle prugne, il secondo film dopo Persepolis che firma con Vincent Paronnaud. Un fiume di parole in francese, con un po’ di volonteroso italiano. «Mi sono innamorata dell’Italia dalla prima volta che ci sono venuta. Allora vivevo in Austria e ho fatto una vacanza in Sicilia e per la prima volta nessuno mi ha chiesto “Da dove vieni?”, perché passavo per una del luogo, finalmente ero una donna come le altre per la strada. Poi ho scoperto il cibo, l’arte, Leonardo da Vinci e l’italiano, la più bella lingua del mondo. Vengo qui ogni volta che posso, in Italia mi sento a mio agio».
Come in Persepolis, in Pollo alle prugne ci sono le sue memorie, la sua vita…
«Praticamente tutto viene dalla mia vita. Intanto Nasser Ali è ispirato a uno zio di mia madre morto in circostanze misteriose, un grande musicista che quando suonava in casa la gente si raccoglieva in strada per ascoltarlo. È il personaggio più vicino a me, è un trucco liberatorio nascondermi dietro a un personaggio maschile. Come lui per un periodo della mia vita ho pensato all’amore, alla morte, all’arte, a tutto quello che è un artista. La storia è costruita intorno a lui ma parlo di me più che mai».
Più che in Persepolis?
«Lì c’era la mia vita, ma più dall’esterno, era per dire “guardate che cosa è successo intorno a me”, mentre in questo film vedo Amalric e vedo me, come lui sono narcisista, rompiscatole, depressa, qualche volta simpatica».
Anche romantica come lui?
«Molto romantica, troppo. Con l’età invece di calmarmi, sono peggiorata, sono diventata assoluta, voglio il “per sempre”! Forse perché ho dovuto lasciare tante persone che amavo, la parola “arrivederci” mi angoscia, mi si stringe la gola, dico “questo momento non ci sarà più”. Voglio la parola “sempre”, mi incanta, ci ameremo per sempre, saremo amici per sempre. Anche in questo sono eccessiva».
Tra le donne del film c’è anche una madre castratrice…
«Ce ne sono in tutte le culture maschiliste, che sono molto sostenute da donne che riversano sul figlio tutto l’amore che non ricevono dai mariti e ne esaltano il machismo. Perciò io dico sempre, non sono femminista, sono contro ogni società in cui, a causa del sesso, c’è una metà che domina l’altra, sarei anche contro una società di amazzoni. Ho molta simpatica per gli uomini un po’ deboli, forse perché sono cresciuta in una famiglia in cui gli uomini erano gentili e tutt’altro che maschilisti e le donne molto autoritarie. Ho sempre visto mio padre e mio nonno sottomessi a mia madre e a mia nonna».
Quanto è cambiata la cultura in Iran?
«Sono dodici anni che non torno in Iran, ma ho contatti continui, qualcosa è cambiato. Quando ero a Teheran era impossibile per una ragazza convivere con il suo compagno prima del matrimonio. Perciò mi sono sposata. Poi ho divorziato. Nell’Iran dello Scià le donne apparentemente avevano molti diritti. Quando è arrivata la minigonna, simbolo di liberazione sessuale, le ragazze iraniane portavano le minigonne più audaci del mondo, poco più che cinture. Però bisognava arrivare vergini al matrimonio e soprattutto pochissime donne lavoravano, ancora meno quelle che studiavano. Oggi il 65 per cento degli studenti universitari sono donne e in tutti i settori, dalla medicina alla matematica, nelle manifestazioni in piazza la presenza femminile è fortissima, questo è il vero cambiamento culturale – diffido delle piazze di soli uomini come in Libia – e in questo c’è la speranza per il futuro del mio paese. È questione di tempo, bisogna avere una visione a lungo termine».
Lei dice che ogni film dev’essere una sfida. La prossima?
«Voglio fare una grande storia di generazioni diverse, dagli anni 30 ai 50, come un romanzo popolare, con Teheran ricostruita in studio come abbiamo fatto a Babelsberg per Pollo alle prugne, un progetto ambizioso. E la mia vita ci sarà sempre».
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