Madre e figlia allo specchio. Scrivere per liberare il dolore
PARIGI — La donna di straordinaria bellezza nella copertina di Niente si oppone alla notte è Lucile, la madre di Delphine de Vigan. Non si fa torto all’autrice se si individua in quella fotografia una delle ragioni del successo del romanzo, campione di vendite l’anno scorso in Francia, appena uscito in Italia per Mondadori. Difficile resistere a una ragazza così interessante, sia pure di carta, che osserva il mondo, con quel suo sguardo obliquo e quella sigaretta tra le dita, dalle vetrine e dalle pile ammassate in libreria.
Chi non si ferma alla prima pagina, scoprirà che le 300 seguenti meritano altrettanta attenzione: la Vigan illustra con cura, amore e poca retorica i dolori e gli entusiasmi di una madre maniaco-depressiva, violenta e meravigliosa, e le vicende spesso drammatiche di tutta la famiglia.
Niente si oppone alla notte è il racconto di storie vere, basato su ricordi personali, testimonianze degli altri famigliari, lettere e documenti: nulla è inventato o camuffato, ma il libro è un romanzo «perché sono io a scrivere, sono i miei occhi ad avere visto certe cose e tutto è filtrato attraverso di me», spiega la Vigan, che abbiamo incontrato in un caffè.
Quando si è pensato, ri-pensato, rivissuto per milioni di volte gli stessi avvenimenti che hanno segnato una vita, si finisce col capire che la verità talvolta è fuori portata: quel che importa, alla fine, è sistemare le cose in modo verosimile, realizzare un racconto soggettivo, sopportabile e dotato di senso, di quel che è stato. La verità , e il giudizio definitivo sul bene e sul male, si possono procrastinare fino all’aldilà , se esiste. «Per questo ho voluto scrivere il romanzo — dice la Vigan —, è stato un modo per riconciliarmi con i miei genitori e il nostro passato tragico. Volevo fare letteratura “scrivendo mia madre”, non solo seguire una psicoterapia usando le parole. Mi sono rivolta non al mio analista, ma al maggior numero di persone possibili». Quattrocentomila, in Francia; l’Italia è il primo Paese dove Niente si oppone alla notte viene tradotto (Mondadori, pp. 310, 18, traduzione di Marco Bellini). Tra i tanti lettori, mancano i due figli di Delphine de Vigan, il figlio 14enne e la figlia di 17. «Ho letto loro i passaggi che li riguardano, ma quanto al resto non sono pronti. Mi hanno detto però che sono felici che il libro ci sia: sanno che è un patrimonio che esiste, al quale potranno attingere quando avranno la voglia e la forza per capire certe cose di noi».
È una storia di famiglia che comincia dalla fine, da quando Lucile si uccide, a sessant’anni. «Mia madre era blu, quando l’ho trovata in casa sua quel mattino di gennaio, di un blu pallido misto a cenere, e con le mani stranamente più scure del viso, come se fossero macchiate d’inchiostro sulle falangi. Mia madre era morta da diversi giorni». È l’incipit del romanzo, che continuerà attraverso gli esordi di Lucile e dei suoi fratelli nel mondo della pubblicità — erano troppo belli per non finire sulle riviste —, le morti accidentali di tre bambini, l’incesto, i frequenti internamenti di una Lucile che alternava momenti di felicità e di fulminante senso dell’umorismo a angosce terribili che sfociavano in deliri e in violenze nei confronti dei figli adorati.
«Aprii la porta, ci precipitammo in salotto, Lucile tentava di trattenere Manon per i capelli, Violette le ordinò di lasciarla, Manon mi si gettò fra le braccia — scrive la Vigan —. Lucile aveva cercato di piantarle degli aghi per agopuntura negli occhi ed era riuscita a piantargliene uno sotto l’occhio destro. Improvvisamente, dietro di noi comparvero uomini in uniforme, qualcuno aveva chiamato la polizia, e la polizia era arrivata. Lucile era nuda e dipinta di bianco, gli occhi stravolti e il corpo tremante. Manon era terrorizzata».
Delphine de Vigan ha scelto di pubblicare anche il biglietto lasciato dalla madre al momento del suicidio, che si conclude con questa frase: «So benissimo che vi causerà dolore ma tanto è inevitabile, prima o poi, e preferisco morire viva».
La storia della donna che ha preferito morire viva, in Francia, ha raccolto le lodi della critica senza destare nessuna delle polemiche che hanno accompagnato, in Italia, l’uscita di un altro romanzo di successo basato su un dramma personale, Fai bei sogni di Massimo Gramellini (Longanesi). Sfruttamento impudico di vicende personali? Allineamento con la tv del dolore? Come se la migliore letteratura non nascesse dalla più radicale impudicizia, che si parli di avventure su Marte o della propria infanzia: quel che conta è l’esito artistico. «Ogni anno vengono scritti centinaia di libri più o meno autobiografici — ricorda la Vigan —, ma ognuno è diverso e raccoglie un successo, di critica e di pubblico, diverso. L’autobiografia non è una moda, non più di altri temi. Contano la sincerità , e le ore passate a cercare la parola giusta».
Non si può fare a meno di leggere Niente si oppone alla notte pensando alla propria, di vita, a quel che la accomuna e la differenzia da quelle vicende interiori. Per Delphine de Vigan è la conclusione di un percorso che le ha fatto raccontare l’anoressia, la rabbia per i genitori, la ricomposizione. «Ora sto bene», dice sorridendo. Prossima opera un film, «ho scritto la sceneggiatura e sarò la regista di una commedia umoristica che parla di sesso». Usare i libri per buttare fuori il dolore può fare bene a chi legge e, evidentemente, anche a chi scrive.
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