«Via Bellerio? Era il Bancomat di Renzo»

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MILANO — «Renzo? Starà  andando al bancomat… ». Era diventata da tempo una battuta di repertorio, quella con cui i padani più smaliziati commentavano il baldanzoso ingresso in via Bellerio del secondogenito di Umberto Bossi. Ma a dirlo erano in tanti: Francesco Belsito, il tesoriere del Carroccio, sarebbe stato solito fornire al più rampante dei figli del capo l’argent de poche per quella vita smagliante cui ogni giovanotto aspira e di cui lui faceva pochissimo mistero. E così, mai come oggi la famiglia si rivela il vero, grande tallone d’Achille di un Umberto Bossi che dopo la malattia del 2004 ha dovuto affidarsi come mai in vita sua ai familiari e a chi dai familiari era stato prescelto. Quel «cerchio magico» di cui Belsito era l’esponente meno appariscente ma, forse, più operativo. Ed è così che secondo i magistrati, che lo mettono nero su bianco nel decreto di perquisizione, tra gli impieghi di denaro non contabilizzati, appaiono anche i «”costi della famiglia”, intendendosi per tali gli esborsi effettuati per esigenze personali di famigliari del leader della Lega Nord». 
Va detto che era anche facile liquidare la velenosa battuta su Renzo e il bancomat di via Bellerio come malignità  pura, frutto intossicato dalla scarsissima simpatia che aveva accompagnato la “discesa in campo” di Renzo detto Il Trota nel gennaio 2010. Il fatto è che la sua candidatura alle regionali lombarde costrinse a un ridisegno delle liste padane che, con effetto domino, coinvolse mezza Lombardia: fuori tutti coloro che potevano dare ombra al rampollo, dentro la fidata Monica Rizzi nella lista bloccata del presidente, fuori chi nella lista c’era già , come Massimo Zanello. Che, ad ogni buon conto, dovette essere candidato in più circoscrizioni spodestando altri candidati ancora. Il bello è che, in pura teoria, il giovane Renzo non avrebbe potuto candidarsi: si era iscritto al Carroccio come sostenitore solo nel 2009, e prima di assumere lo status di Socio ordinario militante (som) occorre una gavetta di tre anni. Peccato che soltanto i som possano concorrere per le assemblee elettive: a Renzo mancavano un paio d’anni buoni anche soltanto per essere candidabile: se il suo cognome non fosse stato più forte degli statuti. Insomma, un gran pasticcio. Che dette, tuttavia, i risultati sperati: il Trota entrò al Pirellone circonfuso della luce dorata di oltre dodicimila preferenze. Secondo i magistrati, però, anche quella campagna elettorale era stata viziata da fondi non correttamente rendicontati. In più, nel Pdl si masticava amaro: «Ci hanno buttato la croce addosso per la Minetti, dicono che le nostre liste siano state modificate all’ultimo per fare entrare lei. E per fare entrare il “bossino”, allora?». Fatto sta che il giovane Renzo e l’igienista dentale prediletta da Berlusconi furono le star indiscusse del primo consiglio regionale della legislatura. Con Bossi che ai microfoni dei cronisti faceva il galante: «Se Annalisa è brava come è bella, faremo insieme grandi cose».
Il comportamento successivo del Trota aveva, semmai, ingigantito i maldipancia. In un movimento che sulla purezza spartana del militante ha costruito un pezzo importante della sua mitologia e del suo consenso, l’arrivo di Renzo alle iniziative di partito a bordo di un maxi suv argenteo seguito da rimorchio per il quad era un dito nell’occhio difficile da ignorare: «Ma dico io — tuonava nel 2010 un sindaco d’inossidabile fede padana — Se qualche anno fa Bossi avesse visto un dirigente qualunque della Lega presentarsi in quel modo, lo avrebbe scorticato vivo. E di fronte a tutti… ». A peggiorare le cose, una voce aveva preso a diffondersi: Renzo diventerà  il capo dei Giovani padani. Una giovanile orgogliosa che in un partito di ortodossia dogmatica aveva saputo ritagliarsi qualche margine di autonomia, sarebbe stata di fatto commissariata. Il messaggio dei giovani, però, arrivò a destinazione: «Renzo non avrebbe i voti. Per designarlo, sarebbe necessario un atto d’imperio». Che il padre preferì non fare. Così come pare non abbia fatto troppo lo schizzinoso quando in gennaio fu avvertito, poco prima della riapertura del parlamento della Padania di Vicenza, che l’esuberante Renzo in realtà  non si sarebbe mai diplomato, quanto meno in una scuola italiana. A dispetto del tormentone sulle sue bocciature che sembrava concluso nel 2009. E pazienza anche per le discusse amicizie con Valerio Merola e Alessandro Uggeri, il compagno di Monica Rizzi, con cui avrebbe compiuto un memorabile raid in quad su terreni protetti a Ponte di legno, il ritiro ferragostano dell’ingombrante famiglia. 
Con il passare del tempo, le voci sulle spese per la famiglia si erano allargate e certo esagerate. A sentire l’incontrollata voce della pancia leghista, oltre al denaro per Renzo sarebbero arrivati dalle casse padane i suoi macchinoni ed appartamenti a Brescia e a Milano. Fole, fino a prova contraria. Ma il leader padano non ha un figlio soltanto. Ecco allora i racconti sulla tenuta acquistata per soddisfare la passione per l’agricoltura di Roberto Libertà  a Brenta, a due passi dalla natia Gemonio, ecco le leggende sulla sede in Sardegna del Sin.pa, il sindacato padano presieduto da un’altra esponente del «cerchio magico», Rosy Mauro. Sede che, giurano i malvagi, assomiglierebbe più a una residenza estiva che a una Camera del lavoro. 
Tutte malignità , certamente, così come le leggende sulle somme destinate a dare una mano al figlio numero uno del “Capo”, Riccardo, pilota di rally e frutto del primo matrimonio di Bossi con Gigliola Guidali. Rileggendola ora, la battuta che Bossi racconta in tanti comizi è di ironia amara: «Mio figlio Riccardo fa il collaudatore per l’Audi. Ma quando ho voluto comprarmene una io, mica mi hanno fatto lo sconto… ». Lui, a sua volta, a Riccardo aveva fatto ben pochi sconti quando quest’ultimo aveva annunciato la sua volontà  di partecipare all’Isola dei famosi: «Lo prendo a calci in culo» aveva tuonato il Capo. Salvo poi, cuore di papà , ostentare pubblica riconciliazione con il primogenito andando a vederlo gareggiare a Montichiari. Eppure, una mano a Riccardo era già  stata data: Francesco Speroni, fresco di elezione a Bruxelles, nel 1999 lo aveva assunto come assistente parlamentare.


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