«Si ritorna a prima degli scioperi del ’44»

by Editore | 21 Aprile 2012 14:25

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«Guarda che io sono giovane, non avevo l’età  per partecipare direttamente alla lotta partigiana anche se lassù in Friuli ne ho visti mica pochi di combattimenti». Così si racconta Antonio Pizzinato per spiegare non è “presidente” ma “presidente onorario” dell’Anpi in Lombardia. In effetti è giovanissimo, ha uno sguardo da ragazzino con quegli occhi chiari che sprizzano intelligenza e catturano l’interlocutore. Classe 1932, primogenito di sette figli in una famiglia contadina, Antonio ha cominciato a lavorare come garzone. A Milano si è trasferito nel ’47 per fare l’operaio alla Borletti ed è del ’47 la sua prima tessera Fiom, a cui seguì dopo un po’ di tempo quella al Pci. Tra qualche giorno festeggerà  la sua sessantacinquesima tessera Cgil. A fine anni Cinquanta fu inviato a Mosca per frequentare corsi universitari di economia e sociologia prima di far ritorno nella sua patria adottiva, Sesto San Giovanni dove ancora vive, per dirigere prima la sezione della Fiom, quindi la Fiom di Milano e la Camera del lavoro. Nel 1986 è stato eletto segretario generale della Cgil. La sua carriera politica inizia – ammesso e non concesso che fare sindacato, come ha l’ha fatto lui, non fosse far politica – nel ’92 come deputato Pds e poi senatore per altre due legislature. Sottosegretario, naturalmente al lavoro, nel primo governo Prodi e nel 2005 vicepresidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro. L’ultimo congresso dei Ds l’ha vissuto all’opposizione: Pizzinato si è schierato contro lo scioglimento che avrebbe dato vita al Pd.
Tra i tanti impegni che ha come presidente “onorario” dell’Anpi Lombardia, Pizzinato trova anche il tempo per partecipare alle riunioni degli “Amici e amiche della Fiom”, un’associazione che ha contribuito a costruire. Come sempre è attento ai cambiamenti della struttura del lavoro, delle soggettività  e del rapporto con la politica. In questa conversazione parliamo dell’oggi in relazione al passato, agli anni Cinquanta e alle successive conquiste del movimento operaio che oggi vengono progressivamente cancellate da un padronato arrogante e da una politica distratta, quando non complice.

Antonio, si sta tornando indietro?
C’è un aspetto centrale non chiarito fino in fondo: è in atto una strategia pericolosa per la democrazia. Si comincia con i contratti separati, si prosegue con il cosiddetto accordo di Pomigliano, la disdetta del contratto unitario dei meccanici del 2008, la cancellazione del contratto nazionale sostituito alla Fiat ormai fuori da Confindustria con un contratto aziendale, poi Federmeccanica che lancia i suoi editti contro la Fiom. Il fine è la cancellazione del contratto nazionale e della rappresentanza sindacale democratica. La Fiat, come sempre, fa scuola e intanto lavora per estendere il suo modello contrattuale aziendale a tutta la componentistica, cosicché cominciano a saltare altri contratti di categoria, nella gomma come nella plastica. Il culmine si tocca con la cancellazione della Fiom a cui vengono negati i rappresentanti, l’agibilità  nelle fabbriche, le salette sindacali e le bacheche, le trattenute delle quote degli iscritti da parte dell’azienda.

È un film che hai già  visto. Senti puzza di anni Cinquanta?
Negli anni Cinquanta c’erano i reparti confino, certo, alla Falk come a Mirafiori; c’erano discriminazioni nei nostri confronti, avevamo una vita grama, ma non si era al punto a cui si è giunti oggi. Io ero in commissione interna alla Borletti, avevamo la nostra saletta e le bacheche anche se non ci facevano partecipare alle trattative. C’erano aziende che pagavano lo stipendio ai lavoratori licenziati per rappresaglia ma non li facevano lavorare. Ci vollero sette mesi di lotta per farli rientrare al lavoro. A fare sindacato nelle fabbriche spesso erano proprio lavoratori licenziati per rappresaglia. Dalle lotte di quegli anni nacque la legge del ’66 sulla giusta causa nei licenziamenti, nel ’70 arrivò lo Statuto dei lavoratori e nel ’74 un’altra legge ricostruì la carriera dei licenziati per rappresaglia nel settore privato. Erano centomila i licenziati per rappresaglia, di cui quarantamila nel pubblico: si trattava di partigiani cacciati dalla polizia, dall’esercito, dalle ferrovie. Pensa che solo nel 2001 siamo riusciti a mettere in regola anche loro, cioè ad applicare la Costituzione con trent’anni di ritardo. 

Come affrontavate i disagi in cui eravate costretti a operare?
Intanto c’era una grande solidarietà  umana esterna alla fabbrica, quella solidarietà  che non sempre trovavi nei reparti per il ricatto continuo a cui erano sottoposti gli operai. Noi alla Borletti facevamo anche produzione militare, per esempio le spolette per la Nato. Allora il padrone, che era anche vicepresidente della Confindustria, lanciò un appello a non votare per la Fiom: se vincono quelli lì, diceva, perdiamo le commesse e i seicento lavoratori a termine – c’erano anche allora – non avranno il rinnovo del contratto. C’era la lettera dell’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce che chiedeva di ripulire le fabbriche dai comunisti e militanti della Cgil e c’era Valletta che alla Fiat faceva il lavoro sporco. Noi giravamo i quartieri e i paesi e trovavamo la solidarietà  dei lavoratori, delle famiglie, dei cittadini. Tra il ’56 e il ’57 cominciammo a riconquistare i nostri diritti, con fatica, pazienza e tante lotte, ma grazie anche alla coscienza delle grandi masse sulle condizioni dei lavoratori. La svolta vera arrivò con la lotta degli elettromeccanici nel biennio ’59-’60.

Come è cambiato il lavoro negli anni Cinquanta?
Con l’arrivo delle macchine automatiche, le catene e i tappeti di montaggio. I professionali hanno lasciato il posto agli operai di linea che lavoravano a ritmo costante. In Lombardia gli abitanti aumentarono di due milioni, arrivarono immigrati da tutto il paese, cambiò la condizione umana. Io ero al reparto esperienze e prove ma avevo di fronte le operaie alla catena che non potevano lasciare il posto neanche per andare a fare pipì, erano costrette a fingere lo svenimento per poter andare in infermeria e, finalmente, al gabinetto. Così c’inventammo le pause. Poi capimmo che la pipì non si può fare tutti insieme a comando, quando scappa scappa. Allora ci inventammo i sostituti che consentivano agli operai di assentarsi senza dover fermare la linea. Le pause, definite in rapporto alla velocità  delle linee e dunque alla cadenza, furono assunte nel contratto del ’57. Nel ’62 entrarono nel contratto con l’Intersind dopo gli scioperi all’Alfa, contratto che anticipò quello con Confindustria mentre alla Fiat ci vollero altre lotte per strappare il diritto alle pause e ai sostituti. Capisci come posso reagire sentendo che la Fiat impone riduzioni delle pause mentre si intensificano i ritmi di lavoro?

Persino la mensa, nel contratto Fiat, è posticipata a fine turno e può essere negata in caso di straordinari.
Lo sai che il diritto alla mensa fu conquistato con gli scioperi del ’44, quando fu emesso un decreto prefettizio per la provincia di Milano? Solo negli anni ’60 diventò legge generale e nel ’70 divenne un diritto contrattuale, ma anche in questo caso perché venisse accettato dalla Fiat furono necessari altri scioperi. Adesso, con la mensa a fine turno e solo se non ci sono esigenze superiori si è tornati a prima del ’44.

Quali arretramenti nel campo dei diritti ti colpiscono di più?
Mi ferisce la messa in discussione del rispetto per la persona umana. La riduzione dei diritti fisiologici degli operai cancella la dignità  delle persone, diventi in tutto e per tutto subalterno, persino per la merce c’è un rispetto maggiore che per chi lavora. In una fase in cui il cambiamento è più dirompente che negli anni Cinquanta servirebbe un rapporto completamente diverso, partecipato, rispettoso verso chi presta la sua opera mentre si pretende di umiliare gli operai. I cambiamenti strutturali e nell’organizzazione stanno frantumando il lavoro con l’esplosione di appalti, terziarizzazioni e la moltiplicazione delle forme contrattuali, cosicché non esiste più il contratto unico e a parità  di prestazione lavorativa non c’è parità  di trattamento, orari, salari, diritti, sicurezza. C’è da rabbrividire se si pensa che il primo contratto nazionale firmato dalla Fiom alla Fiat data 1906, mentre nel 2012 si cancella il contratto nazionale di categoria.

All’attacco ai diritti a chi lavora si affianca l’attacco ai diritti sindacali, con l’organizzazione più rappresentativa che viene espulso dalla Fiat.
Mentre nel pubblico impiego la rappresentanza sindacale è garantita da una legge con regole condivise e c’è la possibilità  di promuovere referendum, la stessa cosa non siamo riusciti a garantirla nei settori privati. Ricordo che nel luglio del ’99 avevamo portato nelle aule parlamentari una legge, relatore Gasperoni, sulla rappresentanza e avevamo approvato 9 capitoli su 12. Poi D’Alema se ne dimenticò e neanche si presentò, la destra lasciò l’aula e non se ne fece mai più niente. Da qui, da una legge sulla rappresentanza e la democrazia bisogna ripartire subito, perché vengono rimessi in discussione lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione.

Di rotture sindacali ne hai già  conosciute altre, drammatiche, sessant’anni fa. Come si può ricostruire oggi un rapporto con la Fim e la Uilm che procedono come treni ad alta velocità  sulle nuove regole antidemocratiche imposte dal padrone e sostenute dalla politica?
Come negli anni Cinquanta, quando con pazienza costruimmo unitariamente nuove relazioni partendo proprio dalle condizioni materiali dei lavoratori, partendo dai problemi concreti come il diritto a fare la pipì quando ti scappa. Questa è la strada da seguire per ricostruire l’unità  dal basso. Non penso solo alla fabbrica o al cantiere navale: prendi un ospedale: prima c’era il contratto unico mentre ora le pulizie, la mensa, il pronto soccorso, persino molti servizi medici sono appaltati. Ci muoviamo nella giungla. Si vogliono far passare i contratti alle condizioni previste nei paesi d’origine dei dipendenti degli appalti, come è stato fatto (dall’allora ministro di centrosinistra Burlando, ndr) nelle navi per il personale viaggiante. Insisto sulla necessità  di riconquistare il contratto unico e la rappresentanza unica dei lavoratori.

Negli anni Cinquanta i lavoratori della Fiom erano discriminati ma avevano un forte sponda, una rappresentanza politica. C’era il Pci di Pugno e Garavini. Oggi il Pd di Torino ha nominato resposabile per il lavoro l’ex segretario del Fismic, che altro non è che il Sida inventato da Valletta e successivamente ribattezzato.
C’è un non rapporto tra le forze politiche e i mondi del lavoro, soprattutto con alcuni di questi mondi. L’assenza di attenzione ai problemi e alle condizioni di chi lavora pesa sul piano politico e istituzionale. La maggior parte dei lavoratori sta in aziende con meno di 10 dipendenti e non trova interlocuzioni con la politica. Sapessi quanti giovani mi fermano sul metrò o alle riunioni dell’Anpi per parlare di quello che non riescono a discutere in alcuna sede: il lavoro. Del resto, la discussione in atto in parlamento per modificare le leggi che regolano il mercato del lavoro è illuminante sulla distanza della politica dalla vita dei lavoratori. C’è da dire che la frantumazione del lavoro contribuisce a cancellare ogni forma di rappresentanza. Urge un salto di qualità  politico-culturale all’altezza della situazione che sta cambiando e richiede nuove norme, nuove regole, nel rispetto della dignità  del lavoratore.

Per parlare ai lavoratori la Fiom è costretta a mettere le tende o i camper davanti alle aziende in cui le è impedita l’attività  sindacale.
Io penso che non siano sufficienti i camper: il sindacato dovrebbe fare i turni per tenere aperte le sedi nei paesi e nei quartieri fino alle dieci di sera, restituendo ai lavoratori e ai cittadini del territorio un luogo aperto in cui incontrarsi, discutere, ricostruire obiettivi unitari. Le sedi sindacali devono essere case comuni.

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