«Quindici milioni di armi». L’Italia che ha paura

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Erano armati i due fratelli gioiellieri che ieri mattina a Roma, affrontati per strada da una banda di rapinatori, ne hanno ucciso uno e ferito gravemente un altro. Era armato il tabaccaio di Correzzola (vicino Padova) che nella notte fra mercoledì e giovedì ha premuto il grilletto e ha ucciso un ragazzo di vent’anni nella sua edicola-tabaccheria dopo averlo sorpreso con altri tre complici a rubare sigarette. Aveva una pistola anche l’orefice di Monte Urano (Fermo) che il 4 aprile sparò a Rosa Donzelli, 36 anni, rapinatrice morta mentre fuggiva con una borsa piena di gioielli. E questo per citare soltanto i casi più recenti.
Nel 2008 gli ultimi dati ufficiali diffusi dall’Eurispes: dieci milioni le armi detenute legalmente da privati cittadini e quattro milioni le famiglie che avevano in casa pistole o fucili (una su sei). Numeri già  allora ritenuti molto sottostimati e difficili da verificare perché non esisteva (e non esiste ancora) un censimento preciso delle armi in circolazione sul territorio nazionale. Il sistema informatico «Space», nato per assemblare ogni genere di dati su armi ed esplosivi, funziona soltanto per alcune regioni e solo per gli aggiornamenti sui porti d’arma. Giovanni Aliquò, dirigente sindacale dell’Associazione funzionari di polizia, è convinto che oggi siano almeno 15-16 milioni le armi detenute dai privati nel nostro Paese e se le proporzioni fossero mantenute vorrebbe dire che le famiglie «armate» a questo punto sarebbero salite quantomeno a sei milioni. «Trovo sconcertante — protesta Aliquò — aver cancellato il catalogo nazionale delle armi», strumento che stabiliva quali armi e munizioni potessero finire nelle mani dei privati e a quali condizioni: è stato abolito con il decreto legge di dicembre sulle semplificazioni e la conseguenza diretta è che adesso è possibile che un incensurato abbia in casa o in negozio armi o munizionamenti con una «altissima capacità  offensiva» che fino a dicembre non avrebbe potuto avere.
Ma se il calibro e la potenza dell’arma decidono la sorte della persona alla quale si spara, lo stesso può fare la mancanza di controllo di chi preme il grilletto.
«Il problema è il meccanismo della paura» valuta il criminologo clinico Guido Travaini. Avere l’accesso a un’arma mentre si è sotto attacco, dice, significa «annebbiare gli aspetti della mediazione» e «perdere l’aspetto della lucidità », «a meno che non si appartenga alle forze dell’ordine che sanno utilizzare l’arma come strumento di lavoro». I fratelli gioiellieri romani di ieri mattina, l’orefice che ha ucciso la rapinatrice o il tabaccaio del paesino del Padovano dove una famiglia su due ha un’arma in casa: nessuno di loro ha «la forma mentis adeguata rispetto all’utilizzo di uno strumento di per sé micidiale». E alla fine ha prevalso per tutti e tre quel «meccanismo della paura» che ha fatto premere il grilletto. Spiega Travaini: «È un’azione che spesso eccede rispetto alla volontà  di chi la compie» e può essere legata a una «vittimizzazione diretta (sono già  rimasto vittima di un’aggressione perciò ora mi difendo) o indiretta (le informazioni che ho mi dicono che i rapinatori delle ville sono violenti, stupratori, potenziali assassini, e quindi reagisco)». Cioè sparo.


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