L’oscuro fascino del Leviatano

by Sergio Segio | 24 Aprile 2012 6:34

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Michel Foucault, da parte sua, individuava prima nell’analitica del potere poi nella svolta in direzione della governamentalità  una tipologia di approccio in grado di liberare la lettura delle relazioni di potere e dei meccanismi istituzionali dall’ipoteca degli schemi emanatisti della sovranità .
Venendo all’oggi, è facile riscontrare come la sottolineatura della crisi della sovranità , del suo declino come quadro di comprensione delle dinamiche in atto, si presenti come un tema continuamente evocato, sia nel commento giornalistico sia nelle diverse narrazioni sulla globalizzazione o nelle analisi più specifiche riguardanti fenomeni quali la privatizzazione delle fonti del diritto o il sempre maggiore potere decisionale e discrezionale detenuto da soggetti transnazionali, pubblici e privati. La geografia frattale del presente, infatti, appare sempre più irriducibile a una spazialità  scandita da quei «contenitori di potere confinato», per usare un’incisiva formula di Antony Giddens, ossia gli Stati nazionali, su cui si è fondato l’ordine nazionale-internazionale e il suo regime di frontiere, vera e propria condizione di possibilità  di ogni narrazione sulla sovranità .
Le crescenti difficoltà  a fare rientrare un numero crescente di processi e pratiche di governo nello schema verticale basato su un decisore in ultima istanza si accompagnano tuttavia alla reticenza a mettere in discussione la cornice generale di quel discorso. E così, anziché chiedersi se abbia ancora senso inseguire il fantasma di un potere sovrano, ci si limita a declinarlo al plurale e ad aggettivarlo, come per prenderne le distanze senza infrangere un tabù. Si parlerà  così di sovranità  miste, sovrapposte, modulari, eccentriche ecc., lasciando cadere la questione se sia lecito, e soprattutto utile, ricorrere a tali formule nel momento in cui esse si incentrano sulla relativizzazione del carattere assoluto, esclusivo e unitario che per definizione dovrebbe caratterizzare la sovranità  all’interno di un dato perimetro territoriale.
Ma non è solo sul piano descrittivo che sembra risultare così difficile elaborare il lutto di una delle categorie chiave della modernità . È facile rilevare, infatti, come prospettive politiche collocate agli antipodi, concordino nel collocare le propria progettualità  all’ombra della sovranità , magari per proiettarla in un futuribile superstato mondiale in perpetua gestazione, come nelle visioni cosmopolitiche à  la Ulrich Beck, o, su un altro versante, per auspicare un ripiegamento sovranista individuando in una restaurata dimensione «statale» l’unico possibile contesto nel quale articolare la partecipazione democratica e restituire alla politica la capacità  di imbrigliare il demone scatenato dell’economia.
Il passato che non passa
Se la sovranità  continua ambiguamente a egemonizzare la nostra immaginazione politica e gli schemi concettuali con cui guardiamo al mondo, non stupisce il protratto interesse, non riducibile alla semplice passione storico-erudita, per Thomas Hobbes, l’autore associato più di ogni alto, ben maggiormente di Bodin, alla teorizzazione della sovranità . La storiografia, in proposito, è assai ricca, come si conviene a un «classico». Ma Hobbes, per i temi che mette in gioco, la sovranità , certo, ma anche il contratto sociale o il nesso paura-politica, sembra appartenere a un passato che non passa. Di conseguenza, la ricostruzione storica tende inesorabilmente a sconfinare in presa di posizione sul presente o, quantomeno, in parabola sul passato che parla all’oggi. Non è un caso, quindi, se alcuni fondamentali esercizi ermeneutici sull’autore del Leviatano costituiscono parte integrante dei percorsi filosofico politici di autori molto diversi fra loro come Ferdinand Tà¶nnies, Leo Strauss, Carl Schmitt (di cui il Mulino ha recentemente ristampato gli Scritti su Thomas Hobbes) o John Rawls. Anche in Italia, d’altro canto, si è sviluppata una fiorente tradizioni di studi hobbesiani, che da Norberto Bobbio arriva a Gianfranco Borrelli, nella quale il rigore storico appare indissociabile dall’intenzionalità  politica.
Il cortocircuito fra passato e presente, in linea di massima, non dovrebbe coinvolgere un «classico» della storiografia hobbesiana recentemente proposto in traduzione da Cortina, Ragione e retorica nella filosofia di Thomas Hobbes di Quentin Skinner (pp. 588, euro 39), storico delle dottrine politiche inglese a cui si devono opere quali Le origini del pensiero politico moderno (il Mulino, 1989) e La libertà  prima del liberalismo (Einaudi, 2001). A scongiurare esiti attualizzanti dovrebbe essere la stessa cifra dell’approccio storiografico proposto da Skinner, incentrato sulla ricostruzione e l’evidenziazione dei registri retorici e delle semantiche storiche fatte proprie sia agli autori sia dai destinatari delle loro opere, al fine di evidenziare il reale significato dei messaggi che intendeva veicolare chi scriveva sia il modo in cui i codici utilizzati interpellavano il pubblico di riferimento.
Le ragioni della sedizione
Come si desume dal titolo del libro, al centro dell’indagine di Skinner si colloca la relazione fra ragione e retorica nell’opera di Hobbes. La prima parte del volume è dedicata a una dettagliata disamina della cultura retorica che, sulla scorta di Aristotele, Cicerone e Quintiliano, si afferma nell’umanesimo inglese, definendo un canone di vir civilis in cui l’eloquenza appare indissociabile dalla saggezza. È in quel contesto che avviene la formazione di Hobbes, una delle cui prime opere è appunto la traduzione della Retorica di Aristotele. Una netta rottura nei confronti di tale tradizione si avrà  dopo l’incontro con la «rivoluzione scientifica». Negli Elementi di legge naturale e politica e nel De cive a emergere è l’esigenza di costruire una scienza politica imperniata unicamente sulle ragioni necessarie, le cui conclusioni si impongano per la loro evidenza dimostrativa senza la necessità  di «sedurre» il pubblico attraverso gli strumenti dell’eloquenza. Anzi, quest’ultima, per il disordine che stabilisce fra le parole, viene reputata una delle cause primarie della sedizione.
Un ulteriore cambiamento di prospettiva, segnala Skinner, si avrà  con il Leviatano, opera nella quale l’atteggiamento nei confronti dell’eloquenza si fa più problematico. La retorica perde lo statuto di causa primaria di sedizione contestualmente alla sottolineatura di altre cause di dissoluzione dello stato. Allo stesso tempo, la consapevolezza della forza degli interessi parziali nel determinare le prese di posizioni dei singoli, scalfisce la fiducia nel carattere «costrittivo» dell’argomentazione razionale. Da qui l’esigenza di coniugare ratio ed elocutio, al fine di suscitare adesione al modello del Dio terreno chiamato Leviatano.
Skinner con rigore evidenzia non solo i ripetuti passaggi dell’opera in cui si auspica il sostegno delle risorse della retorica a una ragione vista come più «debole»” che in passato ma anche i tropi e le figure a cui Hobbes ricorre al fine di rafforzare gli argomenti proposti o di criticare, stigmatizzare e ridicolizzare gli avversari.
Il percorso analitico proposto da Skinner cerca di rifuggire in ogni maniera dal peccato, se peccato si tratta, dell’anacronismo. L’unica concessione all’attualizzazione è costituita dalla considerazione secondo cui il retaggio umanistico, alla fine assunto pur problematicamente da Hobbes, rappresenterebbe un invito alla dialogicità  contro gli eccessi formalizzanti tipici di una certa filosofia politica anglofona. Ma il lettore, lasciando cadere le cautele dello storico, può cedere alla tentazione di reinnescare quel cortocircuito fra passato e presente che sembra accompagnarsi a ogni evocazione di Hobbes.
Dalla fisica al Politico
Una suggestione fra le altre riguarda il concetto di sovranità . Gli sforzi di mobilitare logica e retorica, al fine si sostenere le ragioni di un dio mortale onnipotente all’interno di un dato territorio, ci mostrano un Hobbes forse consapevole del fatto che la sovranità  si presenta non come una scoperta simile a quella delle leggi della fisica, un dato obiettivo, un punto notevole rinvenibile all’interno di qualsivoglia ordinamento, quanto un progetto politico da perseguire in un contesto segnato dal declino dei poteri signorili, dalla ridefinizione delle rappresentanze cetuali e dalle guerre di religione. In tale esercizio di storicizzazione e relativizzazione, forse si può rintracciare qualche preziosa indicazione valida per l’oggi.

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