L’harem degli orientalisti un paradiso «coloniale»

by Editore | 17 Aprile 2012 6:40

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Dopo Barletta e Roma, in questi giorni nelle sale del Palazzo Magnani di Reggio Emilia una mostra racconta la ventata d’Oriente che ha influenzato la pittura italiana del secondo Ottocento e dei primi anni del Novecento (visitabile fino al 29 aprile). In quest’ultima tappa, arricchitasi di nuovi quadri e intitolata Incanti di terre lontane. Hayez, Fontanesi e la pittura italiana tra Otto e Novecento, sono esposte un’ottantina di opere di grandi pittori italiani, quali Domenico Morelli (1826-1901), Roberto Guastalla (1855-1912), Stefano Ussi (1822-1901), oltre ai già  citati nel titolo. 
Nelle loro tele raccontano un Oriente dalle venature esotiche e lontane, fatto di deserti, carovane, mercati, oasi, rovine romane. Un mondo a metà  tra realtà  e immaginazione. Molti di loro hanno viaggiato solo con la fantasia, come il pittore da camera Francesco Hayez (1791-1822), benché non siano mancati coloro, come Stefano Ussi e Cesare Biaseo, che hanno raggiunto le regioni nord africane, i territori dell’Impero turco, la Siria, il Libano, l’Egitto, la Palestina e la Terra Santa al seguito di spedizioni ufficiali. 
Nelle loro narrazioni pittoriche un posto speciale è ricoperto dalle immagini delle donne, e in particolare quelle delle odalische dei misteriosi harem e dei bagni turchi. A loro, ai loro corpi diafani e molli, e ai loro sguardi lascivi, sono dedicate diverse tele della mostra. Ritratte nude o seminude da uomini occidentali che, in quanto tali, negli harem non hanno mai avuto accesso, rappresentano quell’esotico altrove in cui gli europei potevano proiettare le loro fantasie e sognare di fuggire dalle costrizioni del repressivo puritanesimo del tempo. Nei lontani harem d’Oriente, gli europei potevano trasfigurare i propri desideri sessuali e in ultima istanza legittimare la supremazia coloniale europea. Finalmente senza veli e non più nascoste dietro ad alte mura di palazzi, le donne svelano i segreti nascosti di quell’oriente oscuro, che, nella nudità  delle sue donne, appare finalmente penetrabile, conquistabile, sottomettibile. 
Diversi studiosi, tra cui Meyda Yegenoglu in Colonial Fantasies. Towards a feminist reading of Orientalism (1998), hanno sottolineato che la donna è il soggetto su cui l’Occidente ha fatto convergere l’immagine di tutto l’Oriente, facendola diventare la rappresentazione stessa della cultura musulmana, della sua spiritualità , della sua essenza immutabile. Nei ritratti di pittori, ma anche nelle descrizioni di letterati e viaggiatori, le donne rappresentano l’alterità  per eccellenza. E i dipinti della ricca mostra curata da Emanuela Angiuli e Anna Villari non fanno eccezione, malgrado alcune tele come quelle di Domenico Morelli (Una via di Costantinopoli e Odalisca) e di Cesare Biseo (Le favorite nel parco) ci restituiscano presenze più vicine alla realtà , con donne coperte da lunghi abiti e seminascoste da veli chiari attorno al capo come nuvole bianche e diafane che sembra debbano svanire ad ogni soffio, come scriveva De Amicis nel suo diario di viaggio Marocco (1876). 
Nella maggioranza delle tele, le donne sono infatti ritratte svestite, inclini ai piaceri carnali, come raccontano l’Odalisca di Francesco Netti (1832-1894) o l’Odalisca di Francesco Hayez, dal volto pudico da Madonna e il corpo sensuale da concubina. 
Nell’immaginazione dei pittori del tempo queste donne trascorrono le loro giornate dedite ad attività  lussuriose e oziose, come suggeriscono le Fumatrici d’oppio di Gaetano Previati (1852-1920) o la Scena araba di Eugenio Zampighi (1859-1944). Sono immagini che si discostano apertamente dalla normale realtà  degli harem: se infatti per gli occidentali, allora come oggi, la parola harem indica una parte della casa riservata alle donne in attesa di soddisfare i piaceri sessuali maschili, per i musulmani l’harem è la parte della casa proibita agli estranei perché destinata alla famiglia nel suo insieme, e in particolare alle donne e ai bambini, figure quest’ultime del tutto assenti nella ritrattistica orientalistica, come anche le scene di maternità . La sociologa marocchina Fatima Mernissi, cresciuta tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta in un harem della città  di Fez, ha dedicato un bello e agile libro, L’harem e l’occidente (Giunti, 2009), a spiegare questo enorme equivoco della cultura occidentale. 
Da un punto di vista terminologico, la radice di harem è hrm, da cui derivano parole come haram, che sta ad indicare qualcosa di «sacro» e in quanto tale di interdetto, proibito, inaccessibile. Gli harem con decine, se non centinaia di donne, rappresentarono un’eccezione e furono prerogativa solo di ristrettissime élite. «Islamicamente parlando harim non è affatto lo spazio dove vengono recluse o segregate le donne a causa della loro inferiorità  o della loro sudditanza al maschio – scriveva Giorgio Vercellin in Veli e turbanti (Marsilio, 2000) – quanto la parte incontaminata dell’abitazione, riservata alla vita privata, domestica della famiglia (allargata), e pertanto contrapposta alla vita pubblica. Vale a dire un ambiente con una portata semantica analoga a quella del témenos greco e di istituzioni consimili diffuse per tutto il Vicino Oriente antico e oltre». L’harem era quindi un luogo chiuso agli estranei di sesso maschile in cui le donne trascorrevano la gran parte del loro tempo insieme al resto della famiglia. Le uscite, limitate allo stretto necessario, erano permesse solo osservando la pratica dell’hijab, vale a dire della copertura del corpo, della testa e del volto. 
Malgrado la discrepanza della pittura orientalista dalla realtà , la mostra sugli orientalisti italiani, che a Reggio Emilia si compone anche di una sezione dedicata all’Estremo Oriente, merita di esser vista. Non tanto per quello che ci dice dell’Oriente, ma per quello che ci racconta dell’Occidente, perché, come scriveva nel 1978 Edward Said in Orientalism (tradotto in Italia per la prima volta nel 1991), la cultura europea ha acquistato forza e identità  contrapponendosi all’Oriente e facendone una sorta di sé complementare, e per così dire, sotterraneo. Guardando i bei dipinti di Hayez, Netti e dei tanti altri in mostra, è senz’altro questa la prima lezione che dobbiamo esser disposti a trarre.

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