L’EGEMONIA DEL MARKETING

by Editore | 3 Aprile 2012 5:55

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«Non vorrei fare la parte del piangina, come si dice a Milano», scherza Gianandrea Piccioli, una lunghissima esperienza alla guida di marchi storici – prima Garzanti, poi Sansoni, più tardi Rizzoli, ancora Garzanti. «Per indole tendo all’apocalittico, però sono anche un operativo e mi infastidisce la geremiade inane». A settant’anni è considerato uno dei grandi saggi dell’editoria («Ma che esagerazione, sono solo capitato fra le due sedie: dopo i grandi e prima del marketing»), cresciuto alla Corsia dei Servi, l’eretica libreria milanese che negli anni Sessanta mescolava Bellocchio e padre Turoldo. Appassionato di musica, figlio d’un pianista compositore, i suoi ricordi giovanili arrivano a Eugenio Montale mancato baritono in casa del maestro Siciliani («Avrebbe buttato la sua opera poetica pur di diventare cantante»). Passo resistente da montanaro, è abituato a scalare le vette impervie di giganti quali Garboli o Garzanti, Steiner o Fallaci. L’editoria che incarna è molto diversa da quella attuale, «per imparare il mestiere non ti portavano a fare i giochi di ruolo in luoghi esotici». Quasi dieci anni fa la decisione di lasciare, «perché il mondo era cambiato e non riuscivo più a intercettare il mutamento». Lo disse ad Achille Mauri, che lo fulminò: «Ma va là , è solo una botta d’andropausa». Oggi il suo sguardo appare molto nitido, nutrito di letture meticolose condotte nel buen retiro di Rhàªmes o nel silenzio di Casperia, un borgo medievale nell’alta Sabina. «La crisi dell’editoria è una crisi culturale. Si fanno troppi libri, molti anche interessanti, ma oscurati dalla censura del mercato. E soprattutto le case editrici hanno rinunciato a un progetto, a una visione complessiva che suggerisca un’interpretazione del mondo».
Lei cominciò proprio da un’enciclopedia.
«Sì, Giovanni Raboni mi chiamò alla Garzanti per compilare le voci di teatro per la Garzantina letteraria. Poi continuai all’Enciclopedia Europea con Paolo De Benedetti, che coniugava lo scrupolo esegetico con il gusto talmudico della discussione. Dedicavamo ore alle proporzioni degli spazi. Se Dante merita un certo numero di righe, quante ne diamo a Brunetto Latini? Il che comporta un’idea del mondo e dei suoi ordini, ossia la costruzione di una mappa che non è la Verità  assoluta ma uno strumento provvisorio con cui orientarsi. Questo valeva non solo per un’enciclopedia: era anche il lavoro dell’editore».
Oggi non si fa più.
«È venuto meno il progetto illuministico di codificazione intellettuale della realtà . Il postmoderno ha segnato un confine, come fanno le pietre nella campagna qui intorno».
E lei lo rimpiange.
«No, sarebbe inutile. Quell’universo è finito e la cultura informatica fatta di tessere che non si compongono in mosaico è – nel bene e nel male – frutto e insieme volano del crollo della progettualità . Al momento non siamo più in grado di trovare un’alternativa alle vecchie mappe. E l’editoria riflette questa crisi. Lei sa distinguere i libri di un editore da quelli di un altro? Sono tutti uguali, si confondono e si sovrappongono».
Non salva nessuno?
«Prendiamo la saggistica: chi la fa oggi in Italia? Se escludiamo case editrici a vocazione universitaria come Il Mulino o un editore come Laterza, capace di trovare linguaggi più accessibili senza tradire la propria storia, o marchi di dimensioni più piccole ma molto ativi come Donzelli, non vedo una grande fioritura di saggi. Einaudi e Garzanti prediligono una pubblicistica d’attualità  di respiro breve, e anche Adelphi – che rimane un modello esemplare – ha ridotto il genere. La crisi della saggistica è proprio il segno più evidente della rinuncia a interpretare il mondo».
Quando l’editoria ha cominciato a cambiare?
«Quando l’editoriale ha ceduto il passo al commerciale. Prima i libri venivano decisi dal consiglio editoriale, che poi doveva confrontarsi con l’ufficio commerciale: passaggio necessario, ma nella distinzione dei ruoli. Oggi il rapporto s’è rovesciato. È il commerciale che decide le linee del prodotto – i libri televisivi, la serie floreale, la moda culinaria – e la redazione è chiamata a eseguire. Il bestseller, ad esempio, s’è trasformato in un genere. Ha perso unicità  ed è diventato collana. Così la qualità  s’abbassa. E non sempre è garantito l’exploit della prima volta».
Lei ha lasciato una decina d’anni fa. L’editoria era già  mutata?
«Cominciava allora. Feci a tempo a frequentare i nuovi corsi tenuti dagli strateghi del marketing. Stranissimi e gentili signori spiegavano come doveva essere la mia postura mentre parlavo con i redattori, le spalle inclinate in un certo modo, non ricordo se io seduto e loro in piedi, o loro seduti e io in piedi…».
Imbarazzante.
«Facevo l’editore da una trentina d’anni, ed ero abituato in altra maniera. Il mood era di curiosità  rabdomantica, un po’ come l’appassionato “veder di persona” di un Franco Quadri (a quando un Meridiano che raccolga i suoi scritti?) C’erano le telefonate con il collega di Berlino o di New York per sentire che aria tirava. E dalle conversazioni con amici e consulenti, da Giudici a Ranchetti, da Vattimo a Raboni, venivano segnalazioni suggerimenti spunti. E poi io ero certo più fortunato dei colleghi della Mondadori».
Perché?
«Nelle mega riunioni promosse, mi sembra a Santa Margherita Ligure, erano costretti a fare i giochi di ruolo, e gli veniva pure chiesto di adottare un linguaggio militare. “Per rafforzare lo spirito competitivo”, spiegava asettico il loro coach. Niente in confronto con quel che accadeva nel gruppo editoriale di Reader’s Digest: potevi essere portato in luoghi esotici a fare prove di sopravvivenza».
L’isola degli editori?
«Per fortuna nel gruppo Mauri-Spagnol queste cose non si facevano. D’altra parte, anche se salgo oltre i tremila metri, non sono portato per il pericolo. Oriana Fallaci mi diede del vigliacco».
Racconti.
«Allora ero direttore editoriale di Rizzoli, e seguii Oriana per Insciallah. Passai un’estate con lei a New York. Dovevano essere solo dieci giorni, mi fermai un mese e mezzo».
Autrice non facile.
«No, però grande personalità . Aveva un’idea di sé lunarmente distante dalla sua vera natura: era una contadinaccia della Val di Chiana e si immaginava come una fragile dama ingenua, pronta a essere gabbata dal mondo. Dovevo costantemente fare una triangolazione tra me e le due Oriane».
Com’è finita?
«Un giorno, a casa sua, seduta alla scrivania all’improvviso si gettò all’indietro, arrovesciando gli occhi. Stecchita. Ebbi una tentazione di cui ancora mi vergogno: prendere le bozze e scappare in Italia. Paralizzato dalla bassezza dei miei pensieri, non feci a tempo ad alzarmi che lei si riscosse dallo svenimento: “Piccioli, dove va?”».
Fu lì che l’accusò di viltà ?
«No, no, la sera festeggiammo in un ristorantino cinese sotto il mio albergo. Comparve vestita da spagnola, abito nero con i volants e una rosa rossa nel petto. Il cameriere mi prese per il suo gigolò. Non poteva certo capire il teatro di cui Oriana era capace».
Ma quando litigaste?
«Voleva fare la presentazione mondiale di Insciallah in un grande albergo di Beirut, e poi scappare dalla terrazza dell’hotel con un elicottero. Lei ed io. “Non sono adatto”, tentai di sottrarmi. “Lei è semplicemente un vigliacco”, mi redarguì. Rimpiangeva gli eroici cavalieri del Vietnam».
Un mestiere avventuroso, quello dell’editore.
«Era un lavoro di seduzione, non solo intellettuale. Alcuni degli autori sono diventati grandi amici. Cesare Garboli mi fu grato perché gli avevo risolto un problema con Mina Gregori. Mi ripagò curando per Sansoni un prezioso libriccino con le lezioni giovanili di Roberto Longhi. Lo chiamavano Greta Garbo: non perdonava Livio Garzanti per aver sostenuto con maggiore impegno – invece che il suo Falbalas – il nuovo romanzo della moglie Gina Lagorio. Ma Garboli era davvero un maestro».
Se potesse rimettere le mani oggi, da dove comincerebbe?
«Dalle librerie. È lì che bisogna intervenire, rafforzando le indipendenti e diversificandole. Trovo assurdo, a esempio, che la catena Feltrinelli abbia centralizzato gli ordini, come se a Siracusa si leggessero gli stessi libri che si leggono a Padova».
Quando ha capito che l’editoria non faceva più per lei?
«Man mano che aumentava il disagio di cui si parlava all’inizio. Una spia: l’insofferenza al moltiplicarsi delle riunioni, con la cerimonia conclusiva dell’intero gruppo editoriale. Giornate passate a visionare le diapositive di ciascun marchio, i punti di forza, i punti deboli, eccetera. Ma forse è solo una questione di Dna».
Che intende?
«Mi sono formato con Livio Garzanti, che detestava le riunioni: per lui erano adunate sediziose. Ne era ossessionato. Quando passava nervosamente davanti alle porte a vetri, e vedeva più di due persone chiacchierare, diventava furente. “Eh, ma che bello, oggi si fa una riunione”. Il massimo dell’ingiuria. Forse ne sono rimasto traumatizzato a vita».

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