Le zone franche tra nemici giurati

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L’epoca a cavallo tra tardo medioevo e prima età  moderna è stata percorsa da tendenze spesso tra loro contrastanti: da una parte vediamo secoli di arte magnifica, di rinnovamento culturale a più livelli, di esplorazioni e di curiosità  per i mondi nuovi che si andavano scoprendo (e conquistando); dall’altra ci troviamo di fronte a fenomeni di tenore ben diverso: guerre di religione, carestie, epidemie, flagellarono l’Europa a partire dalla metà  del Trecento sino al Seicento inoltrato. Secondo una tendenza storiografica affermatasi negli scorsi decenni, l’insieme di tali contingenze avrebbe condotto all’insorgere di una sorta di psicosi collettiva, culminata nell’individuazione di «capri espiatori» su cui far ricadere la responsabilità  di ogni tragedia. Come, per esempio, la notizia che si sparse fin dal 1321 in Aquitania e da lì dilagò incontrollata a proposito di una supposta congiura tra lebbrosi ed ebrei, mandanti della quale sarebbero stati i saraceni, che avrebbe dovuto condurre a una decimazione della Cristianità  per mezzo dell’avvelenamento dei pozzi. In concomitanza con l’epidemia di peste nera del 1347-48 queste voci si fecero più forti. La responsabilità  di aver diffuso il contagio si attribuì ad ebrei provenienti dalla capitale europea della magia, Toledo. 
Il quadro della crisi di metà  secolo ci conduce insomma all’impressione che la Cristianità  occidentale vivesse nella costante sensazione di un assedio. Se il pericolo ereticale era stato sbaragliato, una malefica convergenza di tipi differenti di emarginati – dagli ebrei agli «stregoni» – minacciava la stabilità  della Cristianità . Erano i fondamenti di un’attitudine che avrebbe trasformato la cultura europea, e che secondo alcuni storici si declina come nascita di una società  persecutoria, come sindrome della «Cristianità  assediata» o come ricerca di nemici interni: i riferimenti sono, rispettivamente, ai lavori ormai classici di Richard I. Moore, The Formation of a Persecuting Society, Power and Deviance in Western Europe, 950-1250 (Oxford-Cambridge, 1987), di Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città  assediata (Bologna 1987), di Nicholas Cohn, I demoni dentro. Le origini del sabba e la grande caccia alle streghe (Milano, 1994).
Dall’Asia alla piana del Danubio
Nemici interni, ma anche esterni: perché mentre si sviluppavano questi timori, si profilava all’orizzonte la minaccia ottomana che avrebbe rapidamente travolto l’impero bizantino, restando almeno fino al XVII secolo uno spauracchio per l’Europa. La cronologia non è diversa da quella appena vista a proposito del «nemico interno». Nel terzo decennio del XIII secolo, una tribù turca spinta dall’Asia centrale verso ovest dall’espansione mongola si era posta al servizio del sultano selgiuchide di Konya, il quale le aveva assegnato un piccolo territorio non lontano da Costantinopoli. Verso la fine del Duecento il suo khan Osman o Othman (1291-1326) si era avvantaggiato della crisi del sultanato di Konya stretto fra i mongoli di Persia e i mamelucchi d’Egitto. II suo successore Orkhan strappò gradualmente molte regioni fino a Gallipoli sulla costa europea dei Dardanelli, che assicurava il controllo degli stretti e l’accesso alla penisola balcanica. Egli penetrò poi nei Balcani impadronendosi nel 1361 di Adrianopoli (oggi Edirne), dove il suo successore Murad I stabilì nel 1366 la nuova capitale facendo così chiaramente intendere di puntar alla piana del Danubio e all’Adriatico. Dopo il sultanato di Orkhan (1326-1359) e di Murad I (1359-1389), il successore Bajazet (1389-1402) vinse i serbi nella battaglia di Cossovo del giugno 1389: ormai gli ottomani avevano sottomesso a differente titolo Valacchia, Bulgaria, Macedonia e Tessaglia, conquistato nel 1394 Tessalonica (Salonicco) e due anni dopo, nel 1396, battuto un immenso esercito crociato euroccidentale nella battaglia di Nicopoli. Solo le campagne militari del mongolo Tamerlano, trionfatore sugli ottomani nel 1402 durante le battaglia di Ankara, riuscì a rallentarne la marcia: ma passata la tempesta, i turchi si riorganizzarono rapidament e nel 1453 il sultano ottomano Mehmed II conquistò Costantinopoli. 
La guerra turca
Si diffondeva così il timore per una minaccia esterna che avrebbe potuto travolgere l’Europa. Ma fino a che punto si trattava di una minaccia percepita sempre e comunque come reale? Non poteva trattarsi invece di un discorso, quello sviluppato in Europa, di tipo retorico? È di questo che si occupa lo storico francese Géraud Poumarède in un libro finalmente tradotto in italiano con il titolo Il Mediterraneo oltre le crociate. La guerra turca nel Cinquecento e nel Seicento tra leggende e realtà  (UTET, pp. 624, euro 29), che a dire il vero rende fino a un certo punto l’originario Pour en finir avec la Croisade, che aveva il sapore di un attacco frontale ai troppi discorsi «pseudo-crociati» che ancora ai nostri giorni inondano i media. «Dedicati a questa cultura dello scontro che designa l’ottomano con un nemico radicale, i primi capitoli di questo libro hanno mostrato sino a che punto essa rimane profondamente radicata nell’Occidente del XVI e XVII secolo. La cultura dello scontro forma un corpo dottrinale coerente che impregna il discorso religioso, la riflessione politica, la creazione artistica». Ma il Turco, per l’Europa cristiana, non era soltanto un incubo: dalla Francia all’Inghilterra al mondo protestante non mancava chi ad esso guardava, magari di nascosto, come a un alleato, quanto meno potenziale o indiretto, contro nemici comuni. Con il passare del tempo, dice Poumarède, lo stesso discorso crociato perse forza e entusiasmo, svuotandosi e divenendo vuota retorica. E quando lo storico volge lo sguardo agli uomini protagonisti delle crociate antiturche, la conclusione non cambia: «Un’analisi attenta dei meccanismi del reclutamento delle truppe ha permesso di chiarire la composizione delle armate d’Oriente. Esse sono per la maggior parte formate da mercenari arruolati sui campi di battaglia europei. Gli ufficiali, che a volte hanno alle spalle un lunga carriera, passano indifferentemente da un conflitto all’altro e si mettono al servizio del miglior offerente. Quanto alla massa dei semplici, troppo spesso ignorata, il suo destino è simile a quello di tutti i fanti dell’epoca: privazioni, sofferenze e brutalità , con l’unico orizzonte della diserzione, dell’ammutinamento, della morte».
L’ombra del Sant’Uffizio
Alla fine del XVIII secolo i turchi, ripetutamente battuti dgli europei, avevano cessato di rappresentare credibilmente lo spauracchio della Cristianità : la lotta antiturca cessava di essere uno spendibile alibi morale e diplomatico per le potenze europee. Ormai, il turco si avviava a divenire un personaggio da commedia o da opera buffa: e si poteva manifestare nei suoi confronti tutta la comprensione e la simpatia che gli riservava Voltaire, mentre l’Encyclopédie, con Diderot, condannava le crociate; e Voltaire le teneva dietro, accomunando le crociate a Maometto come espressione di fanatismo, ma elogiando invece l’Islam ragionevole e moderato dei buoni vicini di casa del Mediterraneo, alleati e partners commerciali della Francia da oltre due secoli. Per non parlare di Venezia, la cui flotta pattugliava il Mediterraneo e interveniva contro le navi che conducevano la guerra di corsa contro gli ottomani. Gli interessi commerciali prevalevano sull’ideologia di crociata; e persino gli interessi religiosi si proteggevano meglio in assenza di conflitto: o almeno questo era il parere dei francescani della Custodia di Terra Santa. Insomma, in età  moderna il paradigma del nemico esterno andò perdendo gradualmente peso; se mai ne aveva davvero avuto: perché molti studi di ambito medievistico vanno ormai mostrando come pure per il periodo precedente i rapporti fossero molto più ambigui, i pareri molto più articolati rispetto alla logica dello scontro perpetuo.
Se lo studio di Poumarède mette in crisi la validità  dela teoria del nemico esterno, un altro libro indica possibili aporie in quella del nemico interno: nel suo Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria (Einaudi, pp. 388, euro 34), Marina Caffiero traccia un quadro dei rapporti tra cristiani ed ebrei all’ombra del controllo del Sant’Uffizio e delle Inquisizioni di altre regioni d’Italia. Tradizionalmente, gli ebrei non potevano esser soggeti al tribunale dell’Inquisizione, che si occupava di eretici: e l’eresia, in quanto errata interpretazione della fede, era cosa interna al cristianesimo. Tuttavia, a partire da Trecento gli inquisitori cominciarono a preoccuparsi sia degli scritti in cui gli ebrei attaccavano la fede cristiana, sia del problema degli ebrei convertiti al cristianesimo che spesso si rivelavano ancora legati alla loro comunità  originaria. 
Le porte aperte del ghetto
Gli ebrei d’Italia non subirono mai il trattamento riservato loro in Spagna e non furono costretti alla conversione; ma certamente in età  moderna il controllo sulle loro comunità  si intensificò e irrigidì: in particolar modo si prestava attenzione ai casi in cui conversioni spontanee di ebrei non fossero osteggiate da parenti e conoscenti; si indagava sulle frequenti denunce di profanazioni compiute contro oggetti e figure sacre dei cristiani; si esercitava un controllo sul contenuto dei testi religiosi degli ebrei; si perseguivano ebrei accusati di commercio con il demonio e di magia. Nonostante questo controllo e la volontà  di tenere separate le comunità  (un capitolo del libro è dedicato alle «unioni proibite»), i «legami pericolosi» cui allude il titolo sono i continui scambi di idee e informazioni, le frequentazioni tra ebrei e cristiani attestate ampiamente e sintetizzate in chiusura dal ricordo di una celebrazione del Purim durante la quale i cristiani «non solo entravano tranquillamente in ghetto durante la festa, sotto gli occhi delle guardie, ma penetravano nelle case degli ebrei di cui erano amici o a cui erano legati da rapporti di affari o di clientela (…). A loro volta, gli ebrei li ospitavano, offrendo rinfreschi che implicavano che ebrei e cristiani mangiassero gli stessi alimenti con le medesime stoviglie, a dispetto dei divieti su questa materia. Questa consuetudine comportava che proprio i capi della comuità  sollecitassero interventi coercitivi e repressivi alle autorità  cristiane, pagando addirittura di tasca loro sia la stampa dell’editto proibitivo del carnevale festeggiato in comune, sia il bargello e i birri che dovevano sorvegliare i portoni del ghetto per impedire l’entrata dei cristiani».
Difficile credere, alla luce di tutto questo, che i cristiani percepissero gli ebrei solo in termini di alterità  e di minaccia; il paradigma del nemico interno come elemento di costruzione della società  occidentale ne esce quantomeno indebolito, così come la volontà  di interpretare fenomeni complessi alla luce di spiegazioni monocausali.


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