LE SCELTE DA CAMBIARE

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L’enfasi riposta da Draghi nel suo discorso di ieri sulla crescita è indicativa, come pure le reazioni del governo tedesco al richiamo alla crescita di Napolitano. Per il momento sono solo parole, ma da tempo non si udivano. Non si tratta di contrapporre crescita a rigore, ma solo di cambiare l’orizzonte temporale del rigore: deve valere soprattutto nel medio-termine, con misure che siano credibili fin da subito non richiedendo ulteriori aumenti di tasse che strangolerebbero economie già  in recessione profonda.
Il fatto che la crisi del debito oggi sia in Europa ci offre questa possibilità  di allungare i tempi dell’aggiustamento fiscale, un’opzione non disponibile nei paesi emergenti che hanno dovuto ricostruirsi credibilità  con contrazioni fiscali massicce e immediate, che hanno finito spesso per distruggere anche le istituzioni e il capitale sociale di questi paesi. Ma per avere più tempo a disposizione, per usare quello offerto dalle aperture di credito della Bce, dal potenziamento del firewall comunitario e da auspicabili ulteriori interventi europei, bisogna affrontare subito nei paesi del contagio la fonte primaria dei rischi di sfondamento dei conti pubblici. In Spagna si chiama spesa locale: il governo Rajoy avrebbe dovuto intervenire sulla Costituzione, riducendo l’autonomia fiscale delle regioni, ma sin qui non lo ha fatto. In Portogallo si chiama salvataggi di stato alle imprese in difficoltà , che hanno gonfiato il debito. In Irlanda sono sempre i salvataggi di stato, ma nei confronti di colossi bancari piuttosto che delle imprese.
Da noi i rischi vengono dall’aumento incontrollato della spesa corrente, soprattutto quella più sensibile all’invecchiamento della popolazione, in regime di bassa crescita economica. La spesa sanitaria, in particolare, è cresciuta del 50 per cento dal 2001 al 2010 e, nelle stime del governo, dovrebbe aumentare di due punti di pil nei prossimi 30 anni. Per questo la spending review non può limitarsi ai ministeri, ma deve per forza di cose coinvolgere anche la spesa locale. Non ci devono essere eccezioni al suo raggio d’azione. Se necessario, la spending review dovrà  mettere paletti al decentramento, come quelli che vengono chiesti al governo spagnolo nei confronti delle autonomie regionali. Più credibili siamo nel procedere in questa direzione, minore sarà  l’aggiustamento fiscale cui dovremo sottostare.
Stupisce perciò ascoltare Vittorio Grilli, ministro dell’Economia in pectore, nella sua audizione alla Camera, ridimensionare la portata della spending review, rimarcandone gli effetti recessivi. È fin troppo ovvio che i tagli di spesa pubblica nell’immediato hanno effetti negativi sull’economia. Questo è ancor più vero durante le crisi finanziarie. Ma il punto è che sarebbe molto peggio per la nostra economia se non li facessimo questi tagli di spesa. Offrono l’unico modo di conciliare una contrazione fiscale che non vogliamo accentuare ulteriormente anche se si sta allontanando il tempo in cui cominceremo a ridurre il debito pubblico (guardare gli esercizi di sensitività  del Documento di Economia e Finanza agli scenari di crescita meno favorevoli, per noi e per il Fondo Monetario più probabili, per rendersene conto) con un addolcimento della recessione. Per farlo abbiamo bisogno di incassare il dividendo di credibilità  che vogliamo ottenere con questo rigore. Ogni riduzione del premio al rischio ha effetti espansivi: se il rigore è convincente, i suoi effetti recessivi possono venire in parte compensati da questo dividendo di credibilità . Che è diventato ancora più importante nell’influenzare l’andamento dell’economia ora che le banche italiane, attingendo ai prestiti della Bce, si sono ulteriormente imbottite di nostri titoli di stato. Oggi ne detengono più di 300 miliardi, il 20 per cento in più di tre mesi fa. Quando lo spread si allarga, i titoli bancari ne risentono molto di più che anche solo qualche mese fa: per ogni punto percentuale di allargamento dello spread, l’indice di borsa delle banche cala di più dell’uno per cento, il doppio di quanto avveniva in ottobre. Questo vale al contrario quando lo spread si riduce.
Per conciliare rigore e crescita bisogna anche tenere conto della fiducia degli italiani, in aprile crollata ai minimi storici. Sono drasticamente peggiorate le percezioni sulla situazione economica del Paese e non più solo quelle riferite alle condizioni economiche individuali e della propria famiglia, sia presente che futura. Sembra che gli italiani non vedano più quella via d’uscita dalla crisi che avevano intravisto nei primi mesi dell’anno. Vedono le imprese che falliscono, la crescita della disoccupazione (+15 per cento in un anno) e della Cassa Integrazione (+16 per cento), come se stessero rivedendo il film della Grande Recessione del 2008-9. Il “doubledip” taglia le gambe, è come il tunnel in cima al passo di Gavia: non se ne vede la fine.
È anche per questo che sarebbe oggi un grave errore scambiare la ragioneria con l’economia. Il sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, ha nei giorni scorsi sostenuto che sono possibili solo aggiustamenti marginali nell’attuazione della delega fiscale. Capiamo che ci siano limiti imposti dalla legge delega cui il governo deve sottostare, ma la delega è stata riscritta proprio da questo esecutivo. Non ci poteva pensare prima? E non si può comunque correre ai ripari tornando, se necessario, in Parlamento? Un governo tecnico dovrebbe fare proprio quelle cose che i governi in tutti questi anni non sono riusciti a fare. Le detrazioni e deduzioni fiscali sono una giungla di misure che vale circa 280 miliardi secondo i calcoli del sottosegretario. All’interno di questa giungla vi sono molte misure discutibili, dalle detrazioni per le spese veterinarie a quelle per l’utilizzo dei centri sportivi. C’è bisogno di uno sfoltimento radicale, non di micro aggiustamenti al margine. Serviranno a creare, assieme alla spending review, margini per riduzioni della pressione fiscale che ha raggiunto livelli insostenibili per il nostro paese.
Perché il tempo che l’Europa ci ha dato e che ci darà  possa servire a qualcosa, bisogna porsi l’obiettivo di far emergere dalla spending review e dal riordino delle detrazioni fiscali quei 20 miliardi necessari ad evitare l’aumento dell’Iva oppure a utilizzarlo per ridurre le tasse sul lavoro a parità  di gettito. Bene in ogni caso impegnarsi sin d’ora a destinare a tagli delle tasse ogni risparmio che verrà  conseguito nella spending review. Sono risparmi molto più facilmente quantificabili dei ritorni dalla lotta all’evasione. Servirà  questo impegno a costruire una constituency a favore dei tagli di spesa. È l’unico modo per assicurarsi che il metodo del rigore utile, quello che compra credibilità  e fiducia e non è solo ragioneria contabile, continui ben oltre la scadenza naturale di questo governo. Anche nell’immediato sarà  un bel risveglio per il Paese scoprire che si può comprare credibilità  anche senza aumentare le tasse e magari riuscendo a ridurre davvero l’imposizione sul lavoro. Sarebbe una di quelle sorprese positive che danno fiducia, che fanno intravedere la fine del tunnel.


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