Le nuove attrazioni del circolo Karzai

by Editore | 19 Aprile 2012 7:39

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KABUL – Per orientarci nel ginepraio afghano dopo gli attacchi multipli di domenica, abbiamo incontrato Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso della galassia talebana. Autore di diversi studi – tra cui Empires of mud: the neo-Taliban insurgency in Afghanistan 2002-2007 – Giustozzi ci ha aiutato a contestualizzare gli avvenimenti dei giorni scorsi: gli attacchi – ci dice – non vanno attribuiti agli Haqqani, ma sono un sintomo della dialettica interna al movimento dei turbanti neri, per dire no al negoziato; il Pakistan ha dato l’imprimatur all’operazione, ma ha fretta di chiudere la partita negoziale; Karzai non pensa al benessere del paese, ma a proteggere i suoi interessi, tra cui quelli legati ai contratti stipulati con la Cina per lo sfruttamento delle risorse (che prevedono una quota per il suo “circolo”); gli americani cercano un accordo di partenariato con l’Afghanistan, ma più che alle basi militari pensano a salvare la faccia; i Taliban rischiano che il Pakistan soffi loro la vittoria militare e simbolica. 
Dalla Cia all’intelligence afghana tutti puntano agli Haqqani, come responsabili degli attacchi di domenica. Ma chi c’è veramente dietro all’operazione, e quale significato politico ha?
Difficile stabilire ora chi ci sia dietro. L’ipotesi è che non si tratti degli Haqqani, ma dei Taliban propriamente detti. Il fatto che gli attacchi siano avvenuti anche nelle province di Logar, Nangarhar e Paktia, segnala una certa propensione verso l’est dell’Afghanistan. Per questo, bisognerebbe guardare non alla shura di Quetta, la “direzione politica”, ma a quella di Peshawar, la “direzione militare”, che gestisce la logistica e la strategia nel breve termine. Il segnale politico è evidente: tra gli obiettivi, c’era l’ambasciata tedesca. È un modo per dire no al piano di aprire un ufficio politico dei Taliban in Qatar, su cui la Germania si è spesa molto. Per comunicare agli occidentali che i Taliban non vogliono essere presi in giro: la riluttanza degli americani al rilascio dei prigionieri di Guantanamo ha convinto alcuni Taliban che non vale la pena avviare i colloqui. E che gli americani volessero soltanto dividere il movimento. Gli attacchi sono un modo per dire no al negoziato e per prevenire una possibile smobilitazione dei militanti di medio-basso rango. Ma dimostrano anche la dialettica interna al movimento. La frangia incline al negoziato, quella “politica”, che puntava a Doha anche per bypassare in futuro il Pakistan, ora non è più maggioritaria. 
Ma è sensato distinguere nettamente, come fanno molti, i Talebani dagli Haqqani? E perché tutti si sono affrettati a dare a questi ultimi la responsabilità ?
Gli americani e il governo di Kabul erano costretti a dire qualcosa. E come in passato hanno puntato il dito contro gli Haqqani, senza elementi. Parlare della rete Haqqani, come gruppo “altro” rispetto ai Taliban, è fuorviante. Un’invenzione. La galassia talebana è composta da diverse frange. Gli Haqqani hanno cercato in passato una maggiore autonomia, ma l’hanno ottenuta solo sul piano militare, grazie all’aiuto dei pakistani. Forti militarmente e solo in alcune zone, politicamente sono deboli. La distinzione reale è tra i Taliban e l’Hezb-e-islami di Hekmatyar, gruppo marginale che è tornato a dirsi favorevole ai negoziati per riposizionarsi. I pakistani li spingono in questa direzione per creare una dinamica a loro favorevole. Quanto agli attacchi di domenica, senza un loro imprimatur non sarebbero stati possibili. 
L’atteggiamento del Pakistan è ambiguo: continua ad aiutare alcuni gruppi ribelli, ma allo stesso tempo nei mesi scorsi ha favorito la discussione sull’apertura dell’ufficio talebano in Qatar…
I pakistani erano contrari all’apertura dell’ufficio, ma i giochi erano fatti e sono stati costretti a collaborare. Però hanno infiltrato uomini a loro vicini per controllare l’operazione e poi sabotarla. Allo stesso tempo, hanno fretta di chiudere la partita, se vogliono imporre i loro termini. Il loro margine di manovra ora è ampio, ma decresce progressivamente, perché il disimpegno degli occidentali costringe gli altri attori regionali a pensare con la propria testa. I cinesi, per esempio, temono che l’avventurismo dei militari pakistani metta a repentaglio i loro interessi economici in Afghanistan e in Asia centrale, considerata il proprio cortile di casa. Per questo, stanno esercitando pressioni sui pakistani. Anche il circolo di Karzai punta sui cinesi, partner economici, per arginare con un’azione di lobbying il protagonismo pakistano.
Karzai ha accennato alla possibilità  di anticipare o posticipare le presidenziali, previste per il 2014. Che fine farà , scaduto il suo mandato?
Il circolo che ruota intorno a Karzai sta cercando di negoziare con i pakistani condizioni diverse dal passato. Si preoccupa soprattutto della successione: cerca una soluzione gattopardesca, che offra garanzie a Karzai quando non sarà  più presidente e che protegga i suoi interessi, che sono molti. I contratti petroliferi già  prevedono una joint venture Cina-circolo Karzai. Quanto al successore, sembra che i pakistani puntino all’attuale ministro dell’Istruzione, Farooq Wardak, che piace abbastanza agli occidentali e ad alcune forze politiche nazionali. Tramite i pakistani, Wardak potrebbe portare dentro al governo anche i Taliban, con cui ha già  contatti. Per ora il gruppo di Karzai non si fida del tutto. 
La Casa Bianca ieri ha ribadito di ambire a un accordo di partenariato strategico con l’Afghanistan. Tra le questioni più spinose, l’eventuale presenza di basi militari statunitensi dopo il 2014. Cosa ne uscirà ? 
Ancora non c’è un accordo sul protocollo militare, senza il quale gli Stati Uniti si ritireranno, come in Iraq. Anche al Dipartimento di Stato sono divisi: sanno che, finché rimangono, gli americani verranno sfruttati dagli altri attori regionali. E sanno anche che una loro presenza altererebbe equilibri già  delicati. Il Pentagono però insiste per mantenere una presenza. Non tanto per le basi in sé, quanto per evitare la percezione che siano dovuti andar via. Il danno d’immagine è già  evidente, ma vogliono almeno salvare la faccia. Stanno calcolando il rapporto tra costi e benefici. Se lasciassero un paio di basi militari, con 18-20 mila uomini, come qualcuno suggerisce, non avrebbero capacità  di proiezione militare, ma costi comunque alti. Stare in Afghanistan costa. E costa anche andarsene. Già  ora i paesi limitrofi e dell’Asia centrale stanno imponendo prezzi altissimi sui trasporti con cui la Nato porterà  via container e mezzi. La questione irrisolta è quella sullo statuto giuridico dei militari che rimarranno. Karzai chiede che rispondano alle leggi afghane. Gli americani non possono permetterlo. È la stessa ragione per cui se ne sono andati dall’Iraq. Non è escluso che rinuncino all’idea di una presenza prolungata. Quanto ai Taliban, dopo il 2014 rischiano che, dopo aver ottenuto il successo contro Stati Uniti e Nato, perdano sul piano politico: la vecchia guardia perde peso, mentre cresce quella legata al Pakistan. Che potrà  sacrificare i Taliban per un accordo che tuteli i suoi interessi.

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