Le Multe siano Automatiche e Controlli la Corte dei Conti
ROMA — La lezione, evidentemente, non è stata ancora sufficiente. Non lo è stata la penosa vicenda dei soldi della Margherita, partito morto ma ugualmente destinatario di copiosi fondi pubblici dirottati verso operazioni ancora tutte da chiarire. Ma nemmeno lo scandalo che ha investito la Lega Nord, con i magistrati che ipotizzano l’impiego familistico e cortigiano dei denari dei contribuenti.
Era l’occasione giusta: ancora una volta si è scelta invece la strada della melina. Del finanziamento ai partiti non se ne parlerà prima di un paio di mesi, quando verrà affrontata, con appena 65 anni di ritardo, la discussione sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione per stabilire lo stato giuridico dei partiti. E allora ne vedremo delle belle: credeteci.
Eppure in una situazione del genere, con la fiducia dei cittadini nei confronti dei partiti (dei partiti, non della politica) che non va oltre un inquietante 4 per cento, serviva un segnale forte anche su questo fronte, oltre che su quello, ovvio della trasparenza. «Dobbiamo fare presto, prestissimo e bene», aveva detto su questo giornale non più tardi di tre giorni fa il segretario del Pdl Angelino Alfano, rispondendo alle domande di Paola Di Caro. È andata proprio così?
Bene, benissimo la certificazione obbligatoria dei bilanci da parte di società di revisione indipendenti. Ancora meglio, però, se a questa misura si fosse affiancata la prescrizione di un collegio sindacale composto anch’esso da soggetti non nominati dal partito. Le sanzioni per le irregolarità finora non esistevano proprio, ed è già qualcosina. Ma ci fermiamo qua.
Quello che convince poco è il meccanismo per cui le multe non sarebbero automatiche, ma verrebbero decise dai presidenti delle Camere su proposta dell’organismo di controllo. E questo convince ancora meno. L’unica cosa alla quale non si doveva assistere ieri era un dibattito avvilente e interminabile a proposito dei controlli pubblici, oggi inesistenti, sull’uso di quel mare di quattrini statali che affluisce ogni anno nelle casse dei partiti. Segno che quei controlli sono il nervo scoperto. La soluzione era chiarissima: quel compito è della Corte dei conti. Sono soldi pubblici e tocca a loro. Il che avrebbe comportato anche il potere per la magistratura contabile di citare gli amministratori dei partiti per eventuali danni erariali. Senza contare i risvolti penali, altro che una semplice contravvenzione, per quanto salata. Un rischio forse considerato eccessivo. Siccome qualcuno (il Pdl) non era d’accordo, è venuto così fuori il solito pastrocchio all’italiana: ci penserà una commissione presieduta dalla Corte dei conti di cui faranno parte magistrati della Cassazione e del consiglio di Stato. Misteriosissimo il perché di una simile miscellanea. Ma già il fatto che sia considerato un «onorevole compromesso», come qualcuno dice, fa storcere il naso.
Sui soldi, invece, zero virgola zero. Tutto rinviato. Anche se chiunque concorda su un fatto: ne arrivano troppi. Troppi e senza trasparenza. E non parliamo soltanto di quei finanziamenti che con inarrivabile ipocrisia sono stati ribattezzati «rimborsi elettorali». Quelli sono addirittura la parte meno rilevante dei fondi pubblici che affluiscono ai partiti, se si considerano le altre fonti: contributi ai gruppi parlamentari e dei consigli regionali, soldi ai giornali di partito, sgravi fiscali per i finanziamenti di imprese e singoli cittadini.
C’era almeno l’urgenza di piantare subito alcuni paletti. Per esempio, eliminare del tutto l’opacità dei contributi privati: fino a oggi era possibile conservare nell’anonimato quei versamenti, purché non superiori a 50 mila euro. E francamente non si capisce perché anziché eliminare del tutto quel limite inaccettabile abbiano deciso di abbassarlo a 5 mila euro.
Ne abbiamo poi sentite di tutti i colori. Come quella di far accedere i partiti al meccanismo del 5 per mille. L’ha proposto Alfano, probabilmente non ricordando un vecchio film dell’orrore. Il sistema delle contribuzioni volontarie sulle dichiarazioni dei redditi (non del 5, ma del 4 per mille) è già stato in voga, in Italia, per qualche anno, prima di essere pietosamente sepolto. Per quale motivo? Di soldi ne arrivarono pochissimi, anche se il ministero delle Finanze non ha mai reso noti i dati.
Dopo il referendum del 1993 che ha abolito il finanziamento pubblico dei partiti, venne approvata la legge sui rimborsi elettorali. Ma erano appena 800 lire a cittadino per ogni elezione, contro i 5 euro di oggi: così quella norma venne affiancata dal 4 per mille. All’inizio si decise che ai partiti, a valere sulle dichiarazioni dei contribuenti, venissero corrisposti degli anticipi. Una volta conosciuto il gettito, i tesorieri avrebbero quindi provveduto a incassare la differenza, se i versamenti avessero superato gli anticipi, oppure, in caso contrario, a restituire al Fisco le somme avute in più. Andò avanti per quattro anni, poi il 4 per mille fu cancellato e contestualmente i rimborsi salirono da 800 a 4.000 lire.
Ecco spiegato perché non ci hanno mai detto quanti soldi davvero sono andati ai partiti con quel sistema: chissà quanti denari avrebbero dovuto restituire, delle centinaia di miliardi di lire che lo Stato aveva anticipato. Tanti che non lo immaginano neppure loro.
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