by Editore | 10 Aprile 2012 7:58
Ci sono le elezioni in arrivo in Francia e anche in Germania, numeri che continuano a rivelare una ripresa anemica, banche in difficoltà , ma la verità è che nel frattempo è cambiato ben poco. Le nuove tensioni sugli spread riflettono una instabilità endemica con cui l’eurozona continuerà a dovere fare i conti. Non bastano gli interventi massicci della Banca centrale europea o le concessioni tedesche sul sistema salva Stati, da tutti giudicato ancora inadeguato. Gli investitori rimangono nervosi e non ancora convinti che l’euro, in questa forma, potrà sopravvivere.
La crisi della moneta unica è scoppiata nel 2010, in coda ad una crisi finanziaria che ha colpito prima gli Stati Uniti e immediatamente dopo il resto del mondo. Per l’euro si è parlato di crisi del bilancio pubblico e di crisi della competitività , ma in realtà quello che la moneta unica ha vissuto è una forma particolare della crisi finanziaria internazionale.
Al centro di questa storia ci sono le grandi banche globali tedesche e francesi, che, mal regolate e con un eccessivo rapporto tra mezzi propri e prestiti, si sono rese intermediarie di vasti flussi di capitale migrati dal cuore avanzato dell’Europa verso la sua periferia. Capitali arrivati in economie caratterizzate da vizi antichi provocando così una sopravvalutazione del loro tasso di cambio reale e, di conseguenza, un declino della loro competitività . Questo, a sua volta, ha generato, in quei Paesi, disavanzi della parte corrente della bilancia dei pagamenti (vale a dire un import superiore all’export) e, in casi come Spagna e Irlanda, alimentato bolle speculative nel mercato immobiliare spiazzando attività a più alta produttività .
La crisi di competitività non è la fonte dell’instabilità , ma il risultato di una integrazione finanziaria mal gestita che aveva promesso di facilitare una convergenza nei livelli di reddito tra Nord e Sud ed è invece divenuta veicolo di una grande e pericolosa fragilità . La crisi del bilancio pubblico, con l’eccezione di Italia e Grecia, è anch’essa il risultato della crisi finanziaria, non la sua origine.
Ma se questa è la diagnosi, l’Europa potrà sopravvivere solo se combinerà misure strutturali che favoriscano l’aumento della produttività della periferia, politiche macroeconomiche che attenuino gli squilibri della domanda tra le nazioni dell’Unione, una supervisione, a livello europeo, delle grandi banche che permetta l’integrazione finanziaria senza generare irrealistici boom del credito, una governance più efficace degli istituti di credito locali che ne limitino l’esposizione al rischio e le commistioni con interessi politici. Politiche che devono essere federali e nazionali.
Sul piano federale la risposta europea è inadeguata e sempre più dominata da interessi nazionali invece che da una visione comune ed ambiziosa che sostenga investimenti in grado di favorire la convergenza del livello di reddito tra gli stati più arretrati e il cuore dell’Europa.
Ma l’Italia? Il caso italiano non corrisponde esattamente allo schema stilizzato delle relazioni tra cuore e periferia. Il nostro Paese non è facilmente classificabile né come l’uno né come l’altra. Come reddito pro capite, almeno fino all’inizio degli anni Novanta, l’Italia è stata simile ai più forti Paesi europei. Comincia a distaccarsene prima dell’entrata nell’euro (e per via di un rallentamento della produttività del suo Nord avanzato) ma, a differenza della periferia, con l’adozione dell’euro non ha vissuto un boom del credito o bolle immobiliari e il rapporto tra risparmio privato e Pil è più simile a quello della Germania che a quello della Spagna. In Italia, anche prima della crisi, non sono i cittadini ad essere indebitati ma lo Stato sovrano. Quest’ultimo, con un debito strutturalmente elevato, alimenta il suo Mezzogiorno e ne spiazza le attività potenzialmente più produttive. La periferia l’Italia ce l’ha all’interno dei suoi confini. Questa storia precede di decenni l’ingresso nell’euro e con la moneta unica ha poco a che vedere. Ma l’euro ha reso questo modello economico impossibile perché non ci permette più di superare i periodi di stress economici con inflazione e svalutazione. Per l’Italia, come per i Paesi più poveri dell’Unione, problemi vecchi che prima dell’euro creavano distorsioni e lentezze nello sviluppo, ma non mettevano a repentaglio la stabilità finanziaria, sono diventati oggi fonte di crisi sistemica e veicolo del contagio tra nazioni. I problemi di Italia, Spagna o Irlanda sono diversi e così le loro soluzioni, ma nessuno può più permettersi di mascherare col debito, pubblico o privato che sia, i suoi problemi strutturali.
Ma è bene ricordare che, anche se con agenti differenti, flussi finanziari alimentati dal debito sono il risultato di un equilibrio in cui tutti — debitori e creditori — hanno il loro tornaconto. Se si vuole rompere il meccanismo qualcuno deve farsi male. Per l’Italia il problema fondamentale è eliminare la dipendenza strutturale del debito pubblico che è stato veicolo di un consenso costruito su un dualismo tra Nord e Sud che dall’unità d’Italia ad oggi ha continuato ad aggravarsi. Ed è da qui che bisogna partire. Coraggio ministro Barca.
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