L’Europa: Mobilità  e tutela della persona al centro della flexicurity di Copenaghen Ogni anno un terzo dei lavoratori cambia posto ecco il modello danese che piace al premier

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Aspiranti danesi. Dal welfare che protegge il posto di lavoro a quello che tutela il lavoratore. Dal modello italiano, incentrato sulla famiglia perlopiù monoreddito, alla flexicurity made in Copenaghen. Meno mediterranei e più nordeuropei, secondo il presidente del Consiglio, Mario Monti, che più volte ha tirato in ballo il modello danese per spiegare la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali preparata dal governo e da oggi in Parlamento. 
«La riforma – ha detto – è mirata a modernizzare la rete di sicurezza sociale per i lavoratori e aumenta sensibilmente la flessibilità  per le aziende nella gestione della forza lavoro». Insomma, a un passo dalla Danimarca, almeno nelle intenzioni. Perché trasferire il modello danese in Italia, dove con l’acuirsi della crisi economica l’occupazione è in discesa libera, le imprese chiudono e il lavoro sommerso è tornato a crescere riportandosi oltre quota 12 per cento, non sembra affatto semplice. 
LE DIFFERENZE
In Danimarca ci sono solo sei milioni di abitanti, non c’è il lavoro nero, il reddito pro capite è quasi il doppio di quello italiano, la sindacalizzazione supera il 40 per cento (oltre dieci punti il nostro), il tasso di occupazione raggiunge il 75 per cento (noi non andiamo oltre il 57), la disoccupazione è vicina al 7,5 per cento e un quinto della popolazione vive sussidiata dallo Stato. Italia e Danimarca non sono paragonabili, eppure è quello lo schema di welfare che il governo di tecnici ha assunto come modello. 
«In realtà  – spiega Bruno Amoroso, economista, allievo di Federico Caffè, professore emerito alla prestigiosa università  di Roskilde, trapiantato in Danimarca da quarant’anni – il modello danese è entrato in crisi agli inizi degli anni ‘90 con la ristrutturazione industriale dell’epoca. Basti pensare che il sussidio di disoccupazione fino ad allora durava cinque anni e ora è limitato a tre. Trascorsi i quali si entra nell’ambito della tutela assistenziale». E dal 2013 durerà  solo due anni. Certo resta il fatto che ogni anno, ancora oggi, circa un terzo dei lavoratori danesi cambia lavoro. La mobilità  è l’elemento centrale del modello danese, è un segno di libertà  del lavoratore. Ma è anche vero che negli ultimi anni se si è disoccupati si è sostanzialmente costretti ad accettare un nuovo lavoro anche se con qualifica e retribuzioni più bassi. «Si può essere professori universitari e lavorare come postini», sostiene Amoroso. L’importo dell’indennità  di disoccupazione è tra il 70 e il 90 per cento della retribuzione media di un operaio qualificato. Si aggira intorno ai 1.600 euro mensili.
NIENTE ARTICOLO 18
Non c’è un articolo 18 danese, non c’è il reintegro in caso di licenziamento ingiustificato. C’è un sistema che funziona secondo criteri diversi: non il risarcimento per la perdita del lavoro, ma la promozione per la ricerca di una nuova occupazione. Tanto che la Danimarca spende quasi quattro volte più che l’Italia per ciascun disoccupato per assisterlo attraverso i centri per l’impiego, riqualificarlo, fargli trovare un nuovo posto. Tutela del lavoratore, e quindi ammortizzatori sociali uguali per tutti, come ha proposto la Fornero, e non frammentati in base alle dimensioni aziendali, all’età  del lavoratore e alla sua residenza geografica. 
Tutto questo si può applicare da noi? Amoroso è molto scettico. La sua tesi è che ciascuno abbia il suo modello. «Anche l’Italia – dice – ha un suo modello di welfare state, nel quale il capofamiglia ha un ruolo centrale. Il risparmio privato è stato un elemento importante del nostro modello. Ma ora è proprio questo modello che sta per essere smantellato». E il futuro, per quanto ispirato alla flexicurity danese, appare piuttosto una scommessa.


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