La sua ultima battaglia «Passi indietro? Mai Se volete cacciatemi»
MILANO — Per la prima volta senza rete, Rosi Mauro sbaglia la traiettoria. E frana rovinosamente. La più fedele interprete del «la Lega ha deciso», si ribella alle decisioni della Lega. La teorica dell’epurazione come forma di governo finisce — parole sue — «epurata». La colpa, quella che lei ha imputato tante volte ad altrettanti presunti «nemici» del movimento: disobbedienza. Insubordinazione al massimo livello: alla richiesta di dimissioni avanzata domenica scorsa da Umberto Bossi in persona, lei ha opposto il gran rifiuto. Il culmine della tragedia arriva quando è lo stesso leader che tenta di ricondurla alla ragione per l’ultima volta: «Lo vuoi capire che è l’ultimo appello? Lo capisci?». Ma lei, per la seconda volta in pochi giorni, dice no all’uomo che l’ha portata dal nulla alla vicepresidenza del Senato (anche se ora quella carica è a rischio, in tanti chiedono le sue dimissioni, e lei dice «vedremo, si fa un passo alla volta»).
Rosi Mauro arriva in via Bellerio pochi minuti dopo le 16. Giacca nera, maglietta rosa con scollatura ornata di strass, è accompagnata da Pier Moscagiuro, il suo caposcorta. Tutto il mondo lo indica come suo compagno, ma lei nega. Anzi, definisce la voce come «l’ennesima nefandezza». La Bmw color argento si ferma di fronte all’ingresso principale di via Bellerio sormontato dal Sole delle Alpi e Rosi Mauro è costretta ad affrontare l’assalto di taccuini e telecamere. A differenza di molti degli altri dirigenti che hanno partecipato al gran consiglio padano, non entra in auto direttamente dalla carraia. Pare che in proposito sia stato dato un divieto preciso, e chi lo sa se è vero.
In realtà , fino a poco prima veniva data a Roma. Non tanto per motivi connessi alla carica. È vero: nella turnazione della presidenza del Senato, ieri sarebbe toccato a lei dirigere i lavori di Palazzo Madama. Ma il presidente Renato Schifani si è tenuto al comportamento scelto già nei giorni scorsi: ha presieduto in prima persona, anche per evitare le probabili contestazioni.
Poi, scompare a testa alta, dentro il quartier generale padano. La prima parte della discussione deve essere stata tormentosa persino per questa donna che sulle «palle di ferro» ha costruito le fortune della sua carriera. Il consiglio federale, infatti, inizia con una lunga discussione sui prossimi congressi nazionali e il congresso federale che porrà fine alla breve stagione del triumvirato e, forse, a quella lunghissima della segreteria di Umberto Bossi. E sembra quasi di vederla, friggere nell’attesa picchiettando le dita sul tavolo, mentre i compagni di partito discettano di congressi di cui, ormai, a lei importa poco.
Poi, arriva il suo turno. La sua difesa è irruente, appassionata e sbagliata. Dice di aver «dato tanto al movimento» e si difende puntigliosamente dalle accuse che emergono dalle carte delle Procure: «Non c’è nulla di penalmente rilevante». Ma lei è imputata d’altro: disobbedienza. Glielo dicono e glielo ripetono, la interrompono per ribadirlo. Niente da fare: lei taglia le obiezioni con gesti secchi della mano. Vuole finire quel che ha da dire.
La casa in Sardegna? «Ma quale sede fittizia del Sin.pa. Quella è casa mia da quarant’anni, un buco… se non ci credete, chiedetelo a Bricolo (capogruppo al Senato, ndr), lui c’è stato…». Le cure in Svizzera? «Ero stata male in ospedale durante la malattia di Umberto, mi hanno ricoverata lì e ha anticipato gli 800 euro la Lega. Ma poi li ho restituiti, e posso dimostrarlo». I soldi al Sindacato padano? «Ma non c’è nulla di strano, la cosa che conta è che i fondi siano trasferiti con regolari bonifici, cosa che è avvenuta». Quanto alla fantomatica laurea in Svizzera, negata in tv, ieri secondo alcuni dei presenti, sarebbe diventata un corso organizzato dal Parlamento.
I presenti le chiedono di ripensarci, di dare le dimissioni, ma lei dura: «Sarebbe un’ammissione». E poi, un po’ surreale: «Gli altri partiti mi prenderebbero in giro». È a quel punto che scatta l’offensiva dei maroniani. Esordisce il capogruppo Gianpaolo Dozzo sul filo dell’ironia: «Sono allibito, mi sembra di stare in un consiglio federale democratico. Quando ci sono state le precedenti espulsioni, quando c’è stata la Pivetti, non sono stati usati tanti riguardi». Poi Gianluca Pini, il segretario «nazionale» della Romagna: «A questo punto — avrebbe detto — la discussione non è se Rosi Mauro debba dare le dimissioni o meno. A questo punto, la discussione è su quale debba essere la sanzione per aver umiliato Umberto Bossi». Il segretario del Trentino, Maurizio Fugatti, si chiede che cosa «sarebbe successo al presidente del consiglio comunale di vattelapesca che si fosse rifiutato di obbedire a un ordine di Bossi». Il mantovano Gianni Fava: «Non stiamo parlando di reati, ma della colpa più grave: contraddire il capo in un partito carismatico. E farlo in televisione, mentre a Bergamo si svolge la manifestazione dell’orgoglio leghista». L’escalation culmina con il duro intervento di Maroni: «Io non ci sto a far parte di un triumvirato che viene delegittimato da un comportamento tanto scorretto». È l’aut aut. Bossi, che probabilmente non l’avrebbe voluta dar vinta all’ex ministro la invita a riflettere: «È l’ultimo appello, pensaci… ». Arrivano anche le difese di Marco Reguzzoni, Angelo Alessandri e Francesco Speroni. La triumvira Manuela Dal Lago annuncia: si andrà al voto. Bossi, che per tutta la riunione è andato e venuto, in quel momento è fuori. Reguzzoni tenta l’ultima carta: «Non c’è Bossi, aspettiamolo…». Dal Lago concede due minuti, che trascorrono nel nervosismo. La clessidra scade, e la triumvira vicentina invita Rosi Mauro a lasciare l’assemblea. La «Nera» capisce che è finita, la partita è persa. Ed esce di scena gridando: «Espelletemi, espelletemi pure. Ma io il passo indietro non lo farò mai. Mai… ». Arriva il voto, nella stanza mancano Reguzzoni, Bossi e Alessandri. Rosi Mauro è fuori.
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