La Repubblica sospesa nel nulla auto-carismatico

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Non fu così nemmeno nel 1993, tempo di crisi ma anche di grandi speranze. C’era innanzitutto la magistratura. C’erano i reduci del passato impegnati nella costruzione di un futuro post-comunista, post-democristiano, post-fascista. C’erano soggetti nuovi come la Rete, la Lega, Forza Italia, cui il rifiuto della parola partito, e l’identificazione in un leader carismatico, sembravano dover garantire la comunione mistica con la molto evocata società  civile, nonché l’immunità  dalle degenerazioni della macchina politica. Infine, c’era una sconfinata fiducia nell’ingegneria istituzionale. Leggi elettorali nuove, si pensava, avrebbero forzato la classe politica a recuperare il senso dell’etica e della responsabilità , ad abbandonare lo spirito di fazione, a fare l’interesse della collettività . Il bipolarismo avrebbe consentito al popolo di fare scelte razionali e non ideologiche; consentendo ai partiti di purificarsi mediante una ciclica alternanza al potere. Avrebbe generato, grazie a un’altra infornata di regole nuove e costrittive, governi stabili, fattivi, basati sulla competenza. 
A distanza di vent’anni, la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica appare un interminabile percorso verso il nulla. Tra continue modifiche, voluti fraintendimenti, delegittimazioni, non abbiamo più una Costituzione. L’ossessione per la leadership – spesso definita carismatica dagli stessi protagonisti, senza pudori – ha generato la mostruosità  dei partiti personali. L’ossessione per il bipolarismo ha creato fragili alleanze tra pezzi di classe politica, destinate a spaccarsi secondo convenienze di classe politica e a risolversi (che paradosso) nel peggiore dei trasformismi. La corruzione che si voleva propria dei partiti “pesanti” non è stata per nulla debellata; può dirsi anzi il contrario. Sempre il bipolarismo ha indotto nei protagonisti della vita pubblica comportamenti rissosi da talk show permanente, nei quali si intravede qualche loro deficit cognitivo. Sono stati eretti a incarichi di governo personaggi incompetenti per definizione. In barba alla vantata stabilità  (o forse in conseguenza di essa), l’incapacità  decisionale ha raggiunto vertici impensati. Così l’ultimo governo Berlusconi, presentatosi come governo “del fare” in quanto governo “della gente”, è stato sostituito da uno staff di professori o tecnici che cercano di fare qualcosa proprio perché indipendenti dai meccanismi di legittimazione popolare veri o (più spesso) falsi di questa falsa e supponente Seconda Repubblica. 
Non voglio sottovalutare il peso del contesto europeo o internazionale sulla nostra ormai periferica dimensione nazionale. È vero però che molti dei nostri problemi attuali derivano dalla presenza al centro del dibattito pubblico delle retoriche e delle pseudo-soluzioni del 1993, anche di quelle che sono state palesemente smentite dai fatti. La fantasia degli ingegneri istituzionali continua a produrre pseudo-soluzioni che pretendono di razionalizzare il sistema, e che rischiano di esasperarne l’irrazionalità . Sull’altro versante, Grillo ripropone con un di più di rozzezza l’illusione che la società  civile, aggregata intorno a un leader carismatico, possa farsi movimento e poi governo, spazzando via i corrotti. L’antipartito trionfa nell’opinione pubblica. Paradosso: a lamentarsene maggiormente, a rivendicare i diritti della politica (dei partiti) sono proprio quelli che più avevano sfruttato nel ’93 il flusso – leghisti e berlusconiani. D’altronde i più equilibrati tra i protagonisti della nostra vita pubblica sanno che il crescere dell’antipolitica non porta da nessuna parte, che una democrazia ha bisogno di partiti. Il problema è come avere partiti buoni.
Torniamo qui al punto d’origine della nostra storia contemporanea, ai partiti del dopoguerra che potremmo dire buoni perché “di massa” e progressisti. Cominciarono dandoci una Repubblica democratica, una Costituzione d’avanguardia, un personale politico di prim’ordine destinato a rimanere sulla breccia a lungo. Continuarono evitando in diverse occasioni al paese la guerra civile cui l’eredità  del fascismo e la guerra fredda sembravano condannarlo, portando vaste masse popolari nella vita pubblica, concorrendo a formidabili processi di integrazione sociale e di sviluppo economico. Questo fecero nel quadro planetario di espansione finito con lo choc petrolifero del 1973, e in quello italiano segnato dall’egemonia dalle banche e delle industrie pubbliche, che moltissimo diedero allo sviluppo prima e molto lo frenarono poi. Negli anni 80 l’intero sistema aveva già  perso la sua funzione progressista.
Va peraltro ricordato che tale sistema ebbe per l’intera sua storia del 1947-1993 il difetto di non prevedere (non consentire) svolte politiche nette e ricambi nel governo. Dunque non voglio riproporre qui il modello del partito di massa, tanto meno nelle due (ben diverse) varianti rappresentate dalla Dc e dal Pci. La storia d’altronde non si ripete. Se lo fa, tende a trasformarsi da dramma in farsa. Basti pensare alla Lega, e al suo modo ristretto, povero, in ultima analisi caricaturale, di rivivere il modello del partito di massa, territoriale, gerarchico, ideologico. Ciò detto, le collettività  hanno bisogno di un’idea realistica del passato per vivere il presente e disegnare il futuro. La nuova politica non può seguitare a criminalizzare la Prima Repubblica tacciandola di partitocrazia, mentre non riesce a realizzarne una Seconda decente e nella mistica attesa dell’avvento della Terza; mentre non riesce a dare una qualunque soluzione al problema del partito politico e della sua relazione con la società  civile. È impensabile che essa seguiti a moraleggiare dall’alto dei suoi fallimenti. Come cittadino e come storico, sento il bisogno di una memoria meno strumentale, meno arrogante.


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