La religione del fanciullino mito italiano

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Il nido, il cimitero, il fanciullino: sembrano questi, a distanza di un secolo, i lasciti che Giovanni Pascoli ha inciso nell’immaginario degli italiani, con travestimenti continui e continue manipolazioni.
Il nido originariamente indica uno spazio vuoto, il luogo di un abbandono. È la famiglia che viene smembrata per cause violente e che progressivamente si annulla, fino a che non scatta un movimento riparatore. Allora uno dei figli si fa di nuovo capofamiglia. Assume il ruolo di padre, richiama a sé le sorelle abbandonate per nove anni, e con loro ricostruisce il nido. Operazione faticosa, che avviene tra Massa e Livorno, dal 1885 al 1895. Pascoli ha ottenuto un incarico di insegnamento, decide di chiamare le sorelle e di riformare con loro una famiglia. Secondo Cesare Garboli qui nasce la poesia ufficiale di Pascoli. Nasce dentro una famiglia anomala, un fratello e due sorelle, che cominciano a legarsi con continue richieste di affetto, nel nome dei loro defunti. Questo nido resiste, tra promesse e ricatti, per almeno dieci anni, poi si disfa una seconda volta: Ida, la sorella più grande decide di sposarsi, torna il Romagna. Resta Maria, e diventa una presenza costante, insostituibile, l’artefice del terzo nido. Il nido finale: Castelvecchio di Barga. Una scelta geografica completamente imprevedibile, né Romagna, né Bologna. 
Nel passaggio tra il secondo e il terzo nido la poesia pascoliana si consolida. Per farlo ha bisogno di un altro spazio, il cimitero. Sembra quasi che tutta l’energia spesa da Pascoli per tenere insieme la nuova famiglia si riconverta nell’evocazione della famiglia d’origine. Ora si radicano pervasivamente le presenze della famiglia scomparsa, ora i morti possono tornare a parlare. Pascoli scava nell’italiano, erode le parole, le trasforma in suoni, grumi di suoni, suoni sfarinati. La famiglia-cimitero parla con la lingua dei morti, il fratello poeta dà  voce a tutti i fantasmi.
Come si fa però a riconoscersi in una famiglia di morti? è possibile avere un’identità  se ci si sente un fantasma tra i fantasmi? e quale legalità  possiede un vincolo tra fratello e sorella, esibito come una fede nuziale? 
Proprio nel momento in cui Ida se ne va, il padre capofamiglia sente sciogliersi il piedistallo su cui è salito, la gola si ingorga di lacrime, la voce si femminilizza. L’invenzione geniale è la maschera del fanciullino: esibire la vocina, calcare sui diminutivi, ritornare in seno alla natura, spaventati di fronte al mistero del mondo. Ecco infine il Pascoli genius loci, anzi genius nationis. Dopo aver sperimentato la commedia dell’infanzia in una famiglia senza regole (il fratellino, le sorelline, la figliolina, la mammina: tutti i richiami affettivi che infarciscono le lettere), Pascoli può proiettarla all’esterno travestendola con abilità  da arte poetica. Ne deriva l’aspetto subdolamente “italiano”: tutti fanciullini, tutti stretti nel buio, per farsi coraggio. Qui il fascismo innesterà  la sua religione pascoliana: la tragedia, il dolore, il bisogno di riscatto, l’eterna infanzia, lo spettro della morte. E allora il monumento funebre cresce a dismisura, abbraccia la storia italiana, il Risorgimento, i miti degli eroi, Garibaldi e Mazzini. Sempre a partire da fatti ricondotti a dimensioni minime, da eventi guardati attraverso uno spiraglio, Pascoli vuole arrivare a enormi verità , a rivelazioni inaudite e quasi indicibili, e così trovare la complicità  di un pubblico medio. Al posto della madre, al posto della famiglia, al posto del nido, diventa ora necessaria la Nazione. L’immagine finale è allora quella del nido-Nazione: il professore degli ultimi anni, proteso a ritrovare il groviglio di fantasmi nel perimetro ampliato dell’Italia, a Bologna, al posto di Carducci, ma stanco, pingue, con il vino che gli intasa il fegato. 
(L’autore insegna Letteratura italiana all’università  di Bologna e ha scritto numerosi saggi 
per Bruno Mondadori e il Mulino)


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