La piccola lezione del neutrino “lento”

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La saga dei neutrini più veloci della luce sembra volgere al termine: in autunno Einstein si era sbagliato e la fisica era tutta da rifare; ora non è più vero nulla. Il pubblico può sentirsi disorientato, se non addirittura un po’ preso in giro. Cosa è successo?
Riassumo i fatti. In una galleria sotto il Gran Sasso viene condotto un esperimento, chiamato con la sigla OPERA, che consiste nel rivelare un fascio di neutrini prodotto nei laboratori del Cern a Ginevra. I neutrini viaggiano da Ginevra al Gran Sasso sottoterra: attraversano la roccia come la luce attraversa il vetro, senza bisogno di tunnel. Nel marzo 2011 viene misurata la velocità  di volo di questi neutrini, che risulta essere di un soffio superiore alla velocità  della luce.
Il risultato è stupefacente perché nessun oggetto mai osservato fino ad oggi (compresi neutrini arrivati dall’esplosione di una stella) viaggia più veloce della luce. E anche perché la nostra comprensione dello spazio e del tempo, chiarita da Einstein, non è compatibile con l’esistenza di oggetti più veloci della luce. Se tali oggetti esistessero, dovremmo ripensare tutta la teoria fisica, che pure fin qui ha funzionato egregiamente. La reazione dei fisici di OPERA, quindi, è cauta. L’ipotesi ragionevole è un errore di misura, che poteva nascondersi ovunque: nell’analisi teorica, in qualche effetto trascurato, nella misura della distanza, nella misura dei tempi, in qualche baco nel software, in qualche cavo difettoso, eccetera. 
Per mesi OPERA ha tenuto la notizia riservata, cercando l’errore, ma senza trovarlo. Il 22 settembre scorso, OPERA decide di rendere pubblico un documento, che conclude con le parole «L’importanza potenziale del risultato richiede la continuazione della ricerca per investigare i possibili effetti non compresi che possano giustificare l’anomalia osservata». Il portavoce dell’esperimento «invita la comunità  dei fisici ad uno scrutinio attento e a ripetere la misura indipendentemente». 
Il giorno prima di questo cautissimo annuncio, il professor Zichichi telefona ad un giornalista del Giornale e fa trapelare in anteprima la notizia di una scoperta clamorosa. Due giorni dopo, alcuni giornali italiani titolano «Cern conferma la scoperta. Neutrini più veloci della luce». La stampa internazionale è su un altro registro e la Bbc titola: «Misure sulla velocità  della luce rendono perplessi gli scienziati». 
Nei dipartimenti di fisica la reazione è incredula ma aperta: l’opinione prevalente è che il risultato sia implausibile, ma non si debba scartarlo a priori e si debba ripetere la misura. Diversi gruppi di ricerca nel mondo iniziano esperimenti con questo obiettivo. Diversi fisici teorici si gettano comunque sul problema e propongono nuove ipotetiche teorie, anche strampalate, per rifare la fisica da capo. 
In febbraio, finalmente, un comunicato molto tecnico di OPERA annuncia che nelle apparecchiature di misura è stato trovato un problema che potrebbe essere fatale. Qualcosa di una banalità  sconcertante: un cavo difettoso rallentava il passaggio di un segnale, dando origine ad un errore di misura. In altre parole, diventa molto plausibile che non sia vero niente: come fosse uno spinotto male infilato. Tanto rumore per nulla …
C’è un aspetto positivo di questa buffa storia: sottolinea l’antidogmatismo della scienza. L’attenzione prestata a OPERA testimonia la cifra caratteristica del pensiero scientifico: l’apertura a cambiare idea. Neutrini più veloci della luce non sono plausibili, ma nessuno, né OPERA né la comunità  scientifica, si è permesso di respingerne con sufficienza la possibilità , con l’arroganza di «sapere già  tutto». Questa apertura è la scienza al suo meglio. 
Una verità  può averla enunciata Einstein, può essere stata verificata migliaia di volte, ma la scienza prende in considerazione la possibilità  che possa essere lo stesso da rivedere. Idee nuove, misure nuove, conclusioni nuove, vengono prese sul serio anche se cozzano contro tutto quello che sappiamo. La forza della scienza è proprio questo non sedersi su certezze acquisite: non avere dogmi. Questo antidogmatismo viscerale è la ragione per il suo grande successo storico: essere pronti a cambiare idea è l’atteggiamento che ci ha permesso di non restare impigliati nelle nostre illusioni e comprendere meglio il mondo. 
Per questo il comportamento degli sperimentatori del Gran Sasso non deve essere stigmatizzato. E’ stato sobrio e coraggioso. Certo, se avessero controllato meglio i cavi sarebbe stato meglio, e non vorrei essere nei loro panni oggi, quando tutti si gettano su chi ha rischiato. Ma la sofferta decisione di rendere pubblica l’anomalia non è stata insensata. In scienza si deve fare così. Più imbarazzati, secondo me, dovrebbe essere altri. 
Primo, chi si è affrettato a telefonare all’amico giornalista per annunciare la grande rivoluzione. Secondo, i troppi fisici teorici che si sono tuffati a scrivere articoli per «spiegare» la misura.
Non hanno mostrato lungimiranza. La scienza deve essere aperta alle rivoluzioni, ma neanche prendere per oro colato ogni annuncio di anomalie. Va di moda cercare rivoluzioni a tutti i costi, e ci dimentichiamo il più delle volte che quello che abbiamo imparato fin qui è vero, e non ha bisogno di essere cambiato.
E, mi sembra, ci sia una lezione da trarre, da parte dei media. E’ molto bene che stampa e televisione si occupino di scienza. E’ bello che questo piccolo dramma che ha agitato una comunità  scientifica sia stato vissuto un po’ anche dal pubblico. 
Ma l’incertezza e le mezze tinte sono difficili da digerire per la comunicazione giornalistica. Spesso sono addirittura solo i titoli a gridare cose che non sono neppure negli articoli o nei servizi. Queste esagerazioni, comuni, ahimè, soprattutto in Italia, non rendono servizio al lettore.
Io pregherei chi si occupa di queste cose di rispettare i lettori e non cancellare i «forse». Ne va della credibilità  dell’informazione. E della credibilità  della scienza, bene prezioso e sotto attacco, la cui perdita farebbe molto male all’intera società .


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