La paura di Cene, prima roccaforte «Senza di lui saremo spazzati via»

by Editore | 7 Aprile 2012 15:40

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CENE (Bergamo) — Gli occhi lucidi di Marcella meritano rispetto. E non gli sberleffi di qualche avventore che al bancone del bar discetta sulla residua consistenza degli attributi del Capo. Neppure ci fa caso, lei. Gli occhi sono fissi al computer. «Ecco, qui eravamo nella palestra comunale, la sera che abbiamo vinto. Umberto stava male, una mega colica, ma aveva voluto esserci lo stesso». 
La voce si incrina. La sua bambina ferma la corsa tra i tavoli. Cosa c’è mamma? Niente, non è niente. Solo un po’ di commozione, davanti a queste foto a colori che oggi sembrano un bianco e nero sgranato, per quanto sono lontane nel tempo. Marcella Bazzana alza lo sguardo sugli infissi sempre uguali da trent’anni, sui menù sgualciti dall’uso, sulle pizze appena uscite dal forno. «Non avrebbero mai dovuto andar via da qui. Dovevamo restare uniti, senza perderci di vista. Qui è la nostra dimensione, altro che Roma». 
L’anonimato del Bar Coba induce all’errore. Il locale affacciato sulla via dei Caduti di Cene non è una buona pizzeria di provincia, ma una piccola patria leghista. Guardiamo vecchie foto seduti al tavolo in fondo alla sala, lo stesso dove ventidue anni fa, proprio in questi giorni, Umberto Bossi e Roberto Calderoli tentavano di convincere Renato, il papà  di Marcella, a desistere dalla sua pazza idea, mettere insieme una lista leghista per sbaragliare la Democrazia cristiana che dalla notte dei tempi governava questo paesino di quattromila abitanti, arroccato a 380 metri di altezza in Val Seriana, diciassette chilometri da Bergamo. «È troppo presto, guarda che vi bruciate, diceva Umberto. Sono loro che si scottano, rispondeva papà ». 
Aveva ragione Renato. Nel 1990 Cene divenne il primo Comune leghista della storia, e da allora non ha più cambiato idea, cinque monocolori, altra rarità , quasi il 70 per cento dei voti come media ponderata delle rispettive elezioni amministrative. Bulgaria padana, o quasi. Eppure non c’è nulla che ricordi la Lega in questo locale. Non un manifesto, una foto, una bandiera. Niente. «Mi sono sempre rifiutata di trasformarlo in un mausoleo. Non ce n’è bisogno. Io sono leghista nell’anima. Ieri guardavo le immagini di Bossi alla televisione e pensavo ai miei genitori, a quando mi portavano a Pontida e tornavamo a casa in coda nelle macchine, in silenzio e con i brividi per le emozioni che ci aveva dato il comizio di Umberto. Ci faceva sentire importanti, come se ognuno di noi valesse più di quel che era». 
Renato Bazzana se ne andò nel 2005, e Marcella conserva ancora la pagina de L’Eco di Bergamo che lo ricorda, autografata da Bossi. «Non era potuto venire al funerale. Stava male. Era cominciato l’accerchiamento magico nei suoi confronti. Che follia, isolarlo in quel modo, allontanarlo da noi, ignorando volutamente il fatto che la Lega è solo lui».
C’è differenza tra padre e figlia, tra due generazioni di militanza leghista. Renato era impetuoso, aveva la genuinità  e la veracità  della prima volta. Marcella ha la stessa fede, ma la esercita in modo diverso. «Credo che strillare o esibirsi non serva a nulla. Governare bene le nostre realtà , crescere insieme, questo mi sembra più importante». 
La piccola Cene è cresciuta seguendo questa mutazione. «I miei predecessori capirono subito che contava solo la buona amministrazione. Qui non abbiamo mai dato scandalo, siamo stati una Lega che non cercava la notorietà  con provvedimenti bizzarri. Oggi offriamo servizi di qualità  a costo zero o quasi. Abbiamo l’Imu al minimo, e non applichiamo l’addizionale Irpef. Credo che la cittadinanza apprezzi». Il dottor Cesare Maffeis ha vinto le elezioni del 2009 senza fare campagna. Non ce n’era bisogno, è bastato farsi vedere in giro con Giorgio Valoti, sindaco uscente, iscritto alla Lega dal 1993, dirigente d’azienda in pensione e suo attuale vice. 
I cartelli all’ingresso del paese sono gli unici nel bergamasco a non avere la scritta in dialetto, la sezione del partito è in una palazzina anch’essa anonima, alle finestre non si vede una bandiera padana. Alle pendici del monte Bo, nella parte alta del paese, c’è la prova di questa attitudine diversa, di un sentire disgiunto da quello dei vertici. Mentre Bossi urlava il suo celebre «fora di ball» agli immigrati che sbarcavano a Lampedusa, a Cene, in una palazzina gestita da Caritas e dal Comune, ne arrivavano 36, quasi tutti ivoriani. «Sono qui dalla fine di luglio. Brava gente, che merita aiuto» dice il sindaco. 
Maffeis, geriatra, direttore di una casa di riposo, non è esattamente il prototipo del leghista rozzo divenuto ormai uno stereotipo. È un quarantenne di buone letture, malato perso di basket americano, capace di recitare a memoria le formazioni di North Carolina o dei Boston Celtics. «La Lega pura e dura del celodurismo è finita da tempo, il contrasto violento non paga più. Adesso, tutto questo, quel che noi davvero siamo oggi, rischia di essere spazzato via. Da una tempesta che ci vede spettatori». 
Ci sono tanto modi per esprimere lo spaesamento di questi giorni. L’ex sindaco Valoti si lascia andare a giochi di parole, «siamo militanti e militonti» ma assicura che nulla è cambiato, e lui continuerà  a darsi da fare «a gratis» per il partito. Gli anziani nella piazza del Municipio parlano di vecchi tradimenti e di nuovi inizi. Anche il giovane Maffeis vorrebbe cullare l’illusione. Ma in questi mesi gli è toccato vivere sulla propria pelle lo scollamento senza poterlo denunciare. È stato lui a tentare invano di convincere l’artigiano Giuseppe, uno che aiutava il papà  di Marcella a montare il palco della prima festa leghista. Pochi mesi fa si è presentato in sezione con la tessera stracciata: «Per me finisce qui». E non ha più cambiato idea. 
Ieri mattina il sindaco è entrato in municipio e gli impiegati comunali, tutta gente che non vota Lega, lo hanno accolto in silenzio, senza il solito rosario di battute. «Questa cosa ricadrà  su di noi. Si è rotto l’elemento di purezza che ci distingueva, e la Lega non ha un piano di riserva. Continueremo a gestire il territorio in autonomia, ma non sarà  facile fare distinzioni, e dimostrare che c’è vita dopo Bossi». 
Al Bar Coba intanto è ora di sparecchiare i tavoli. Marcella spegne il computer e i ricordi. Entra Ahmadou, uno degli ivoriani del monte Bo. «Mi spiace per voi» le dice con un sorriso largo. Lei ricambia, e lo manda a quel paese, per scherzo. Cene è cambiata, in questi anni. Peccato che ai vertici della Lega non se ne sia accorto nessuno.

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