La nuda proprietà  del corpo Politico

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È un fatto difficilmente contestabile che dalla primavera 2009 fino allo scorso autunno il discorso pubblico del nostro Paese è stato pervaso dal tema della sessualità  dei politici. Le scabrose vicende dell’ex premier, anzitutto, ma anche del direttore del quotidiano Avvenire, Dino Boffo, del presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, del sindaco di Bologna Flavio Delbono e, da ultimo, del capo della Protezione civile Bertolaso, hanno tenuto banco sui principali media, spodestando rapidamente dalla «prima» fatti ed eventi – dalla crisi economica al terremoto dell’Aquila – che certo avrebbero meritato ben maggiore attenzione.
Si direbbe che si è voluto chiedere alla sessualità  la verità  sul Politico. Ovvero, come scrive Ciro Tarantino nel prologo ad uno smilzo ed elegante volumetto appena apparso per Quodlibet, che si sia individuata nella sessualità  «una possibilità  di rivelazione, una capacità  di illuminazione» del Politico. Tentativo di per sé legittimo, che peraltro vanta illustri precedenti nel marchese de Sade come in Pier Paolo Pasolini, oltre che naturalmente nel pensiero della differenza sessuale. Sennonché, mentre in de Sade e in Pasolini il ricorso alla metafora sessuale era finalizzato a dischiudere gli arcana imperii di sistemi politici che operavano secondo il registro del segreto, da difendere anche ricorrendo alla menzogna e all’inganno, la caratteristica delle odierne menzogne del potere (una per tutte: che il nostro ex premier davvero credesse che Karima El-Mahroug era «la nipote di Mubarak») è che sono riconosciute come tali praticamente da tutti. E se così è – chiede giustamente Tarantino – perché quest’insistenza sul tema della sessualità ? Dove non c’è più nulla da capire, tutto essendo chiaro e cristallino, perché mai dovremmo riconoscere al sesso un potere di veridizione sul Politico?
La paura degli uomini
L’interrogativo è riecheggiato più volte su queste colonne, soprattutto per merito delle acute analisi di Ida Dominijanni. E un punto può dirsi definitivamente acquisito: che cioè il farsesco postribolo che di volta in volta emergeva da una registrazione, un’intercettazione, un video, una foto, un’intervista, non aveva nulla a che fare con l’«eterno ritorno» del patriarcato tradizionale, con l’uomo protagonista al centro e le donne interscambiabili in posizione di contorno, ma segnava piuttosto l’emergenza di una crisi della sessualità  maschile, ossia della «paura degli uomini» rispetto alla destabilizzazione dei ruoli sessuali provocata da quarant’anni di pratiche femministe.
Ma se questo è certamente vero, non è detto che sia tutto. Se esiste (come esiste) un nesso fra il «patto sessuale» e il «contratto sociale», non potrebbe darsi che l’improvvisa pervasività  assunta dal rapporto fra la sessualità  e il Politico sia stata la spia di un’altra emergenza, che atteneva appunto al «contratto sociale» e che veniva a manifestarsi solo per vie di condensazione e spostamento, ossia per metafore e metonimie?
Per provare a rispondere a questa domanda, è opportuno riflettere sul modo in cui il discorso pubblico ha affrontato il tema della sessualità  del politico (con la «p» minuscola, cioè dei politici). Come scrive Tarantino (e come documenta l’analisi di Alessandra Straniero, contenuta nello stesso volume), ai dubbi individuali sulla convenienza di discutere di vicende a sfondo sessuale si è presto affiancato un dubbio di ordine professionale: i fatti oggetto delle notizie presentavano infatti i tratti del gossip, che mal si presta ad essere sussunto entro la categoria del giornalismo «alto». Ma siccome la querelle circa la disponibilità  di un «oggetto» del discorso sottende in realtà  la legittimazione del soggetto a disporne effettivamente, la riflessione si è ben presto spostata sulla sussistenza stessa della «condizione di trattabilità »: secondo molti opinionisti, infatti, si trattava di vicende attinenti alla vita privata degli individui che ne erano coinvolti, e in nessun caso sarebbero potute diventare oggetto di discussione pubblica.
È facile rilevare come una posizione del genere si situi nel solco della tradizione liberale, che assume il «privato» (e specialmente la proprietà  privata) come sfera assolutamente intangibile da parte del «pubblico»: secondo i liberali, in effetti, si dà  e ci si dà  solo volontariamente, in virtù di uno scambio o al limite per filantropia. Ma è proprio l’individuazione di codesta matrice che può offrire una chiave per disvelare l’«indicibile» sotteso al conflitto sulla liceità  di parlare della licenziosità  sessuale del Potere. Se ha ragione Tarantino a sostenere che si è trattato «di uno degli infiniti scontri per la rimodulazione dei limes fra sfera pubblica e sfera privata», la cui composizione è stata sempre «altamente instabile e storicamente segnata da equilibri punteggiati», non potrebbe darsi che, dietro le apparenti spoglie di uno «scontro per la rideterminazione degli equilibri fra istanze di controllo e di secretazione del privato del Politico», sia andato in realtà  in scena un conflitto ben più ampio, che concerneva la rideterminazione degli equilibri fra «pubblico» e «privato»? Ovvero, e più precisamente, un conflitto tra pretese capitalistiche e pretese pubblicistiche concernenti la regolazione e l’intervento sul processo di produzione sociale?
Un corposo indizio al riguardo può trarsi dall’atteggiamento che, rispetto alle libertine performances dei nostri politici, hanno tenuto il manifesto e l’Osservatore Romano, quotidiani diversissimi per ispirazione culturale eppure ugualmente dotati della capacità  di fiutare immediatamente l’autentico significato sociale di un evento. Come emerge dall’accurato sfoglio di Serafina Ruggiero, mentre il Corriere della Sera e Repubblica (per non dire del Fatto Quotidiano) riempivano pagine e pagine di foto e articoli sullo «scandalo» dei festini dell’ex premier, il manifesto parodiava il linguaggio scandalistico per titolare notizie che riferivano della rabbia dei terremotati dell’Aquila in corteo a Roma (Le foto piccanti, 31 maggio 2009) o editoriali che raccontavano di «un Paese che sta nelle prime posizioni mondiali per diseguaglianza economica, dove un cittadino su quattro sotto i 25 anni è disoccupato» (Circola un filmino scandaloso, 1° novembre 2009). 
Dal canto suo, l’Osservatore Romano, arcigno custode della moralità  cattolica urbis et orbis e aduso a intervenire in ogni vicenda che ne metta in gioco gli insegnamenti (si pensi solo al caso Englaro), ha serbato un assoluto silenzio sulle magagne sessuali su cui si infervoravano i media nostrani, rifiutando di scrivervi anche una sola riga: «Il quotidiano della Santa Sede non è solito entrare negli scontri politici interni degli stati», ha spiegato serafico in un’intervista il suo direttore.
Stili del godimento
Resterebbe a questo punto da comprendere il motivo per cui uno «scontro politico interno» che concerneva le nefaste conseguenze delle scelte economiche compiute dalla nostra classe politica sia venuto a manifestarsi sub specie di interrogazione politico-morale delle condotte sessuali dei politici. Si può concedere, in termini generali, che la sessualità  può esercitare un’efficacia sociopolitica solo in quanto sia surdeterminata da elementi articolabili come «non-sessuali», ma qui il problema è opposto: perché mai un conflitto concernente l’allocazione delle risorse avrebbe dovuto rappresentarsi proprio nella forma fantasmatica della liceità  del bunga-bunga?
Prendendo a prestito la riflessione di Jacques Lacan, si potrebbe anzitutto osservare che l’immagine del capitalismo veicolata da Silvio Berlusconi ha proposto una sorta di «tempo secondo» (giusta l’espressione di Massimo Recalcati) rispetto alle tesi classiche di Karl Marx e di Max Weber. Mentre soprattutto per quest’ultimo il fondamento ideologico-culturale del capitalismo risiedeva nella cultura dell’ascetismo protestante, secondo cui solo la rinuncia e il sacrificio di sé avrebbero consentito l’accumulazione del capitale, il discorso del capitalista «lacan-berlusconiano», potremmo dire, elimina ogni riferimento al sacrificio e alla rinuncia pulsionale per esaltare la spinta al godimento, l’imperativo sregolato del «consumo per il consumo» e la connessa domanda sociale di omologazione agli stili di godimento (cioè di consumo) prevalenti.
Si potrebbe aggiungere che è proprio questo aspetto ad aver reso Berlusconi un «interprete autentico» delle frange anarcoidi del movimento di contestazione che dal ’68 si snoda fino al ’77, ma non è questo che qui importa. Preme piuttosto rilevare che un sistema economico come il capitalismo, strutturalmente affetto da un’insufficienza della domanda aggregata di consumi, poteva veicolare (e veicolarsi attraverso) un immaginario del genere solo a patto di sottomettere ai propri fini la domanda aggiuntiva espressa dal settore pubblico, in modo da trasformarla da strumento di soddisfazione in forma pianificata di bisogni collettivi in mero sostegno esogeno della domanda di consumi individuali. E benché una trasformazione del genere fosse già  in atto nel nostro Paese almeno dagli anni Ottanta (fu questa, in effetti, la vera forza del craxismo, ciò che lo rese primo interprete dei bisogni libertari emersi durante il decennio precedente), bisogna dire che Berlusconi ne ha colto come pochi le potenzialità , adoperandosi costantemente affinché la spesa pubblica non diminuisse in termini assoluti: il puntello che essa offriva ai consumi era infatti necessario per la realizzazione di una società  compiutamente «privatizzata» e incline a concepire il proprio stare al mondo come uno scivolamento continuo da un godimento all’altro, giusta l’imperativo installatosi da oltre un trentennio nell’inconscio sociale – «Devi godere!».
È questa la visione del capitalismo su cui nell’ultimo quarto di secolo hanno puntato ampi settori delle nostre classi dominanti per vincere il conflitto sociale e le resistenze di quella parte del movimento dei lavoratori e del «ceto medio riflessivo» che avrebbe preferito allocazioni di tipo «socialista» della spesa pubblica: un’economia non più fondata su risparmio e bilanci in pareggio, ma «sbilanciata», eccessiva, strutturalmente in deficit. Soprattutto, mossa da un «desiderio di godere» di cui il rituale del bunga-bunga ha offerto alla fine la metafora più adeguata: un’immane raccolta di merci (di donne-merce), serialmente accumulate per risuscitare l’illusione dell’immortalità  e fugare lo spettro sempre incombente della morte.
La provvidenza è tecnica
Non è qui possibile dar conto delle ragioni per cui questo meccanismo non poteva reggere: basti dire che non sono quelle che si leggono sui giornali della borghesia o che vengono spacciate in tv dagli intellettuali suoi lacchè. Accade piuttosto che sul finire del 2008, con l’insorgere della crisi economica internazionale, Berlusconi diventa un «personaggio-tabù»: un individuo pericoloso per le stesse classi dominanti che l’avevano voluto o comunque tollerato, perché l’improvvisa rivelazione dell’illusorietà  della sua promessa di un’eterna dépense consumistica non soltanto ribalta nel suo contrario il significato positivo fino ad allora associato all’immaginario del godimento, ma soprattutto dà  voce a consistenti movimenti d’opinione, che mirano a riaffermare l’intangibilità  del livello della spesa pubblica allo scopo a riorientarne la destinazione verso il soddisfacimento di bisogni collettivi. Le inchieste sul bunga-bunga si rivelano allora come il veicolo «involontario» di una contestazione diffusa dell’egemonia capitalistica: nessuno l’avrebbe mai pensato, ma i referendum del giugno 2011, che bloccano le pretese appropriative del capitale nostrano nei confronti dell’acqua e di altre public utilities, lo confermano oltre ogni ragionevole dubbio.
È allora che scatta l’«operazione-Monti». Le fanno da prologo la lettera minacciosa con cui, nello scorso mese di agosto, la Banca centrale europea ingiunge al governo in carica di accantonare qualsiasi velleità  di mantenere in mano pubblica la proprietà  delle aziende che gestiscono beni e servizi essenziali per le comunità  territoriali e, subito dopo, l’impennata – improvvisa quanto provvidenziale – della speculazione finanziaria sui nostri titoli pubblici. Il senso della successiva ascesa del professore bocconiano a Palazzo Chigi è chiaro, ed è stato spiegato su queste colonne ancora da Ida Dominijanni: il soggetto neo-liberale di foucaultiana memoria, l’imprenditore di se stesso che si nutriva di consumo prendendo denaro a prestito e spargendo all over the world i rischi della propria insolvenza, va finalmente incontro al suo destino, che si materializza nel debito che lo sovrasta e gli indica la sua colpa. Dal godimento alla penitenza: in nome del Padre, à§a va sans dire.
Si tratta di una normalizzazione che, anche stavolta, si manifesta nell’evolversi del giudizio pubblico sul libertinaggio di Berlusconi, nei cui confronti l’attenzione della stampa borghese recede fin quasi a scomparire. La tacita derubricazione a gossip di tutte le vicende a sfondo sessuale che lo riguardano è infatti il dispositivo di cui il Potere si serve per riaffermare la supremazia del «privato» (cioè del capitale) sul «pubblico»: lo scandalo è finito, anzi non c’è mai stato, e gli antichi avversari, tutti insieme, lavorano e sostengono responsabilmente il governo di «salvezza nazionale». E così sia.


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