La nostra storia non cancella le altre storie

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Qual è il ruolo della tradizione nella storia di un popolo? La domanda,che ha suscitato l’interesse di generazioni di studiosi, trova oggi risposta in un breve ma impegnativo volume: Contro le radici. Tradizione, identità , memoria del filologo Maurizio Bettini, pubblicato dal Mulino.
Bettini non crede sia possibile definire una comunità  attraverso la tradizione: ai politici che hanno proposto di inserire nel preambolo della Costituzione europea un riferimento alle radici cristiane del vecchio continente; agli autori del manifesto della scuola leghista Bosina in cui si legge che «gli uomini sono come gli alberi», «se non hanno radici, sono foglie al vento»; a Marcello Pera, più volte ricordato perché esponente di un mondo che rifiuta il multiculturalismo e trova la forza della sua identità  nella tradizione, Bettini contesta la stessa idea di«radici». Per questo suggerisce di rappresentare la tradizione come un fiume nel quale confluiscono diversi affluenti, invece di utilizzare la metafora botanica delle radici che rimanda alla terra, e quindi esprime l’idea del fondamento. Nel volume, con molteplici citazioni tratte dalle sue competenze di filologo classico, e con un richiamo agli studi sulla memoria collettiva di Maurice Halbwachs, Bettini ricorda che la tradizione si costruisce attraverso una continua selezione della memoria. In questo senso è scorretto e pericoloso immaginarla come un dato stabilito una volta per sempre e invocato per definire l’identità  di un gruppo sociale.
Ora qual è la ragione di questo suo timore? Bettini pensa che noi italiani abbiamo un rapporto patologico col nostro passato. Incapaci di emanciparci dalla cultura che ci ha preceduti, negli ultimi anni stiamo assistendo al riaprirsi del confronto fra cultura laica e cultura cattolica e ad un ritorno, nella società  contemporanea, della spiritualità . In realtà  non spiega perché la rinascita della religione potrebbe costituire un problema e presenta come universalmente acquisite considerazioni storiografiche che fanno parte di interminabili dibattiti. Iniziamo dalla teoria della «tradizione inventata», proposta dallo storico inglese Eric Hobsbawm nel 1983 e ripresa da Bettini in Contro le radici: secondo Hobsbawm molte «tradizioni che ci appaiano, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente e talvolta sono inventate di sana pianta» per rispondere a tempi di crisi e per accrescere la legittimità  dell’oggetto della tradizione. Per esempio, nel XIX secolo le nazioni moderne hanno proiettato la loro presenza nel passato per giustificare la propria esistenza.
È un’ipotesi interpretativa molto nota, ma non è l’unica che ci aiuta capire il ruolo delle tradizioni e dei miti politici nella modernità . Nel 1975 lo storico tedesco George Mosse scrisse che dal XIX secolo, per sottrarsi alle angosce determinate dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione e dall’erosione dei valori cristiani, in un mondo divenuto anonimo perché sempre più alienante, la politica moderna si espresse nei termini di una religione laica e nazionalista, attraverso una liturgia dotata di un apparato di miti, di riti e di simboli. Secondo Mosse, dunque, la questione non era, e non è, se i miti prodotti dalla politica sono veri o falsi, e tanto meno se sono creati a tavolino da solerti inventori di ideologie. La questione è che la politica della modernità , quella nata dalla rivoluzione industriale, ha coinvolto élite e masse popolari proprio in quanto religione, e quindi credenza capace di garantire identità  e salvezza a tutti coloro che la celebrano. È quella che Mosse definì «nazionalizzazione delle masse».
PERCORSO VERSO IL FUTURO
E, in effetti, proprio la modernità , nominata addirittura nella copertina del libro di Bettini come una realtà  che si sviluppa contro le derive tradizionaliste, è decisamente assente dalle pagine che compongono il volume. O meglio, la modernità  che traspare dal suo ragionamento è un percorso verso il futuro che si dipana emancipandosi dalla spiritualità , dal passato e ovviamente dalla religione. Se non suonasse provocatorio verrebbe da dire che questa riflessione appartiene ad una «tradizione» le cui «radici» affondano nel terreno della storia del nostro Paese: una tradizione tenuta in vita da quegli intellettuali che hanno considerato l’Italia un Paese diverso dal mondo moderno e civilizzato. Arretrati, retorici, piccolo borghesi, cattolici, illiberali, e infine pure fascisti, non siamo e non saremo mai come gli altri europei. Eppure, di fronte alle religioni politiche del 900, alla novità  rappresentata dai regimi totalitari, alla trasformazione della politica in una fede che ambisce a garantire senso all’esistenza, non c’è bisogno di scomodare nessun autorevole studioso per ricordare che non esiste soltanto una modernità  buona, democratica, razionalista e laica.
Forse, allora,i diritti delle minoranze non saranno tutelati negando l’esistenza delle tradizioni o magari considerandole espressioni primitive. Se pensiamo che la laicità  dello Stato sia in pericolo, come sostiene Bettini, difendiamola politicamente e culturalmente. L’abbiamo fatto con le battaglie per i diritti civili e dovremmo continuare a farlo di fronte alle nuove grandi questioni poste dallo sviluppo scientifico e da una società  multietnica: dal cosiddetto testamento biologico, alla necessità  di garantire la neutralità  confessionale ai numerosi bambini non cattolici che frequentano le scuole pubbliche. Potremmo mostrare che evocare il passato non significa necessariamente imporre la propria storia a chi ne ha una diversa.


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