LA MACCHINA DEL MALE
È al suo esordio, ha appena 23 anni, e già i nazisti a Berlino mandano al rogo il suo primo libro, Gli uomini sbagliano, punito come esempio di letteratura “degenerata”. È il 1933, e subito, il giorno dopo l’incendio del Reichstag, gli tocca fuggire per trovar rifugio a Vienna. Ma l’Austria sarà per lui rifugio effimero, perché con l’Anschluss dovrà scappare di nuovo: in Svizzera, poi in Brasile, Portogallo e Stati Uniti. Comincia così la carriera letteraria di un uomo in fuga, Ulrich Becher, grande drammaturgo e romanziere tedesco nato nel 1910, tra i pochi “ariani” la cui opera viene data alle fiamme nei giorni della Notte dei cristalli, quando la Germania perde la libertà . Di Becher esce ora in Italia, per la Dalai editore nell’ottima traduzione di Roberta Gado, l’opera capitale: Murmeljagd, Caccia alla marmotta, uscita in Germania nel 1969 e da poco ripubblicata in versione originale nel suo Paese per il centenario della nascita dell’autore. Un libro tormentato, pieno di rimandi e flash back, in cui egli tenta di raccontare su se stesso, sulla psiche di un oppositore del regime, la “giustificata fobia”, la diffidenza fra uomoe uomo, cresciuta nell’epoca del nazismoe che ancora, a guerra finita, continua – egli scrive al fratello Rolf nel 1958 – ad autoalimentarsi con la «forza propulsiva di un missile intercontinentale».
Teatro della vicenda: Svizzera, canton Grigioni. Tempo dell’azione: un mese, nella primavera del 1938, la stessa della fuga di Becher dall’Austria. La trasparenza autobiografica è chiara fin dalle prime righe. Il protagonista, Albert von…, detto per anagramma “Trebla”, raggiunge l’Engadina con gli sci, grazie a un complice che ne impedisce la cattura spostando i paletti di confine sotto il naso degli Alpenjaeger tedeschi, poco pratici del territorio austriaco appena annesso alla Germania. A Trebla si aggiunge, dopo un viaggio in treno con una coppia di amici, la bella moglie Xane, figlia di una nobile venuta dal Baltico e del celebre clown equestre Konstantin Giaxa, ispirato a Roda Roda, suocero austroungarico dell’Autore. Subito inizia una sequela di giorni carichi di angoscia, claustrofobia, in cui la libera Svizzera si svela una prigione. Poi comincia la paura, nel momento in cui giungono a Pontresina due ambigui giovani austriaci in braghe corte di cuoio e calzettoni bianchi d’ordinanza, salutisti, vegetariani e sedicenti cacciatori Dachau, o quella in Spagna dell’amico antifascista Valentin Tiefenbrucker. Ma soprattutto morti vicine, strani e ambigui suicidi all’ombra dei ghiacciai alpini, che lo mettono in crisi e, nella sua mente divorata dall’ansia, lo fanno guardare a se stesso come al responsabile di un’epidemia, come se le persone in relazione con lui fossero tutte condannate a sparire. Tutte, inclusa la moglie, che si scopre incinta e lui invece teme gravemente malata, per sua colpa, causa un precedente aborto da lui stesso propiziato.
E così, in una vita da vacanzieri reclusi, sospesa tra camera d’albergo e gite in montagna, trenini a cremagliera e discussioni nelle Stube degli hotel, spariscono a uno a uno l’avvocato Gaudenz De Colana, che finisce nel lago dentro l’auto assieme ai suoi cani, poi Zarli Zuan, habitué del giocoa carte col commissario di polizia, che si getta nello stesso lago con sulle spalle uno zaino di pietre, infine il soldato Balz Zbraggen che si spara dopo aver visto Trebla amoreggiare con la sua ragazza a una festa di paese. Il protagonista si ritrae spaventato da questi fantasmi che amplificano paure pregresse: l’ombra del nazismo, quella della Grande Guerra (dove è rimasto ferito alla testa), infine quella della cattura. Un cortocircuito che gli fa di marmotte, che Trebla ritiene mandati dai nazisti per liquidarlo.
L’ansia del protagonista è accentuata da un antistaminico che egli assume contro la febbre da fieno di cui soffre; e il farmaco lo lascia sospeso in uno stato di allucinazione dove immaginario e realtà , presente e passato, prove e sospetti, si mescolano al punto da trasformare la preda in cacciatore. Un cacciatore maldestro di nazisti, ma anche di ombre, storie, donnee incontri. E la morte arriva, a ripetizione.
Ma non colpisce lui. Colpisce chi gli è vicino. Morti lontane, come quella del suocero, deportato a immaginare complotti e costruire castelli di carte, intrecci di supposizioni ancora più folli della realtà .
Magistrale il racconto, carico di tragica ironia, della morte di Kostantin Giaxa, fatto da Tiefenbrucker nell’intermezzo svizzero del suo viaggio verso la Spagna durante una partita a biliardo. Il comandante del campo di Dachau offre il suo cavallo al giocoliere equestre imprigionatoe gli chiede di mostrare cosa sa fare. Kostantin che, oltre che clown, è stato cavalleggero del regno di Baviera nella prima guerra mondiale, prima esegue numeri straordinari sulla bestia non sua, poi si lancia a tutta velocità sul filo elettrificato per morire insieme al cavallo del suo persecutore, sotto l’inutile, stupido, crepitare della mitraglia dalla torre di guardia.
Su tutta la vicenda grava, come un basso continuo, il senso dell’inevitabilità della guerra, la percezione di un piano inclinato che porta fatalmente al disastro, la visione chiara della guerra di Spagna come “prova generale” di quanto sta per accadere. Fatalismo e anche impotenza: «Quando cominciarono a sparare – si chiede Becher – i difensori della democrazia in Europa? In Austria nel febbraio del Trentaquattro, e Trebla era con loro». Ma inutile e troppo debole fu quella resistenza. L’Autore sembra portarsi dietro lungo tutte le 550 pagine del racconto il dolore per non aver fatto abbastanza contro la macchina del male.
Alla fine, è come se il protagonista “volesse” sentirsi sotto tiro per riscattarsi, darsi un ruolo più decisivo nella resistenza, un ruolo che in realtà non ha avuto. Come se la persecuzione desse senso al suo esistere, alla sua vita raminga ormai incapace di agire per troppo senso di colpa. Chiuso nella prigione dorata dell’Engadina (Becher sarà espulso dalla Svizzera perché il suo antinazismo sarà ritenuto lesivo della neutralità del Paese), Trebla non può far altro che assistere come da una campana di vetro al grande gioco che si svolge alle frontiere. Ma anche di quel grande gioco arrivano echi solo attutiti, come sei giornali non arrivassero, come se il presente fosse una rappresentazione irreale. E così, mentre le notizie sulla contemporaneità arrivano sfocate, il passato riemerge nettissimo nei flash back.
Quelli per esempio sui combattimenti della Grande Guerra e sulle sanguinose rivolte postbelliche della Germania, raccontate con uno stile che richiama il Viaggio al termine della notte di Céline o I proscritti di Ernst von Salomon.
Ma alla fineè l’intreccio che vince, l’impasto – tremendamente complesso – tra passato e presente e tra i personaggi del racconto, che in molti punti ricorda lo schema narrativo a scatole cinesi di Sebald nel suo capolavoro, Austerlitz.
La storia finisce con un colpo di pistola, ma di Trebla medesimo. Il protagonista ha l’improvvisa visione di un persecutore armato, si butta a terra e preme il grilletto, ma percepisce lo sparo come rivolto a se stesso. È la moglie a riportarlo alla realtà . «Perché hai sparato a un covone, Trebla?», gli dice, prima di svelargli di essere al terzo mese di gravidanza, certificandogli in modo inoppugnabile che la vita va avanti.
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