La lunga marcia di una politica costituente

by Editore | 14 Aprile 2012 9:56

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Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni (Ombre Corte) si propone di far compiere passi avanti teorici alla nozione giuridica dei «beni comuni» interrogandola, in un dialogo genuinamente contro-disciplinare. Colgo l’occasione per affrontare alcuni nodi teorici tenendo conto della loro ricaduta politica oggi, che intorno alla prassi «benecomunista» un nuovo soggetto politico nuovo cerca alleanze ampie. Tre sono le critiche principali: 1) la nozione di «beni comuni», così come emersa nella prassi conflittuale dell’Italia post-referendaria, è vaga. Se tutto è un «bene comune», allora nulla è un «bene comune»; 2) la nozione di «beni comuni», evocando un «nuovo medioevo» costituisce una critica alla modernità  fondata su nostalgia per il passato e sul mito del buon selvaggio; 3) la nozione di «beni comuni» non traccia in modo sufficientemente chiaro i suoi confini con la «comunità » da un lato e il «comunismo» dall’altro, mettendo a rischio le conquiste del liberalismo illuminista.
Non stupisce che la preoccupazione per la vaghezza concettuale emerga soprattutto fra i giuristi (non solo i curatori ma anche nel saggio di Luca Nivarra). In effetti, la precisione terminologica e concettuale costituisce uno dei claims più convincenti attraverso il quale i giuristi portano avanti il loro «progetto professionale» cercando prestigio sociale e legittimazione nella produzione di concetti precisi e dunque potenzialmente produttivi di certezza del diritto. 
Interpretazioni costituzionali
Risponderò in due modi: a) il potenziale evocativo dei beni comuni si sostanzia principalmente nella loro capacità  di mobilitare e di connettere fra loro vertenze single issue che, per loro tramite, scoprono una cifra politica condivisa. Che cosa condivide la lotta di una comunità  montanara contro la Tav con quella dei lavoratori dello spettacolo raccolti in un teatro occupato? In questa fase storica di potere tecnocratico illegittimo e corrotto, saper collegare fra loro le centinaia e centinaia di vertenze che dalla base sfidano il pensiero unico è un contributo politico inestimabile che va riconosciuto al «benecomunismo». b) La storia trasformativa del diritto civile è fatta di nozioni non meno vaghe di quella di «beni comuni» che fanno evolvere le sue categorie riflettendo nuove sensibilità  politiche e socialie rigettando l’immobilismo (o la trasformazione arbitraria) prodotto dalla forma e dal concettualismo. Si pensi alla vicenda dell’abuso del diritto, a quella della funzione sociale della proprietà , alla buona fede o più in generale all’interpretazione «costituzionalmente orientata».
Il nuovo medioevo in cui emergea livello globale tanto il neoliberismo quanto il «benecomunismo», non è categoria assiologica o normativa. Essa piuttosto descrive la fine della sovranità pubblica sotto i colpi dei poteri privati transnazionali ormai più forti degli Stati, e smaschera definitivamente le mitologie giuridiche della modernità  (per dirla con Paolo Grossi). Poiché tuttavia la mera descrizione non esiste se non nell’ambito di un paradigma positivistico screditato, bisogna dire chiaro che i «benecomunisti» non sono perfettamente equidistanti fra pubblico e privato (e qui ha ragione Tullio Seppilli a protestare contro il titolo del volume). Possiamo dunque rammaricarci per la sconfitta della sovranità  pubblica (alla quale consegue l’estrema difficoltà  tanto del riformismo quanto delle ricette keynesiane) e al contempo rallegrarci per la fine delle mitologie giuridiche (tanto positivistiche quanto naturalistiche) che hanno imposto un costo salatissimo alla cultura giuridica in termini di capacità  critica. Respingere la rozza antropologia di Hobbes e di Locke, rifiutando le origini e perseguendo la genealogia (come fa Coccoli nel suo bellissimo saggio) non significa sposare acriticamente Rousseau ma semplicemente chiamare l’ideologia liberale (e giacobina) e la sua nozione di progresso fondata sul razzismo e sull’etnocentrismo alle proprie responsabilità  storiche. Fare i conti con il nuovo medioevo nulla ha a che vedere con il desiderio di un ritorno indietro che resta irrimediabilmente reazionario.
I beni comuni sono il solo strumento giuridico potenzialmente idoneo a tradurre sul piano istituzionale (o se si preferisce costituente) la concezione del comune di Michael Hardt e Toni Negri. Essi sono dunque lo strumento giuridico che le moltitudini creano (e utilizzano) nella loro prassi di lotta per l’emancipazione. In altri termini, i beni comuni indicano una rivoluzione epistemologica, quella di porre al centro la comunità  ecologica e non l’individuo, il che li apre alla critica di quanti non riescono a liberarsi dall’antropocentrismo confondendone i tratti riduttivistici (comunque ideologici) con quelli emancipatori. 
L’individio e lo Stato
Occorre in ogni caso puntualizzare che la possibilità  di tradurre giuridicamente una prassi di comune (ad esempio la Fondazione Teatro Valle) nulla toglie alla sua valenza sovversiva dell’ordine neoliberista. Semplicemente, il diritto (formale) offre un linguaggio che mostra come la sovversione del capitalismo si possa tradurre in un nuovo ordine capace di includere selettivamente quanto di accettabile sia stato prodotto dalla tradizione giuridica e politica, evitando quindi la scorciatoia di buttar via l’ordine giuridico passato per crearne uno completamente nuovo. Di qui l’altra questione, al centro del dibattito giuridico, stanti le opzioni percorse dalla Commissione Rodotà , del rapporto fra beni comuni e diritti fondamentali della persona. 
La concezione individuale e individualizzante dei diritti è l’epifania storica dell’ideologia borghese che declina l’intero «reale istituzionale» come rapporto fra soggetto individuale (astratto e proprietario) e Stato sovrano. L’umano, come la gran parte degli altri animali, presenta tratti nettamente sociali (relazionali) i quali appartengono al mondo della partecipazione e della condivisione comunitaria. Alla comunità  si partecipa: ne si è parte, e l’ elemento del dovere mal descrive il rapporto fra le parti e il tutto. La costruzione della comunità  come oppressione (aggregato di doveri paternalistici) fa parte della strategia illuminista, volta a produrre un ordine proprietario fondato sull’accumulo senza fine. Tale operazione continua oggi per creare sempre nuovi spazi di «predazione» per le multinazionali (dotate di vita artificiale eterna) le quali hanno posto sotto controllo lo Stato e gran parte degli apparati ideologici (inclusa una cultura economica sempre più acritica) ma trovano nella vocazione al comune delle moltitudini un nemico temibile. Non ha senso comparare l’obbligo comunitario (che certo può essere risentito in certe circostanze della vita) soltanto con la «piena libertà » dell’individuo giovane, ricco e in salute. 
L’antropologia liberale esclude la dipendenza dall’esperienza della vita umana, semplicemente rimuovendone la prima e l’ultima fase (sempre più lunga in Occidente) per concentrarsi sull’individuo adulto e in salute. Per scegliere fra individualismo e comunità , e prima di lanciar strali a quest’ultima in nome dell’illuminismo e della modernità , occorrerebbe interrogare anche un uomo che fruga nei bidoni dell’immondizia nella luccicante Manhattan. I diritti fondamentali della persona, categoria dell’essere, sono perfettamente compatibili con la loro declinazione politica e collettiva e con il rifiuto dell’esclusione.

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