La guerra globale delle public relation
Come è suo stile, Page non nasconde l’ambizione di Google di diventare il centro gravitazionale della Rete, anche se non nasconde difficoltà e la necessità di una riorganizzazione più radicale dell’impresa, al fine di ritornare allo spirito innovativo delle origini. In primo luogo, Google vuole continuare a sviluppare il software necessario affinché gli internettiani possano prendere congedo da altri fornitori di programmi informatici. Dopo Chrome, la posta elettronica e un programma di videoscrittura essenziale, nei piani di Larry Page c’è il potenziamento di Google Plus, cioè di un social network che può insediare il quasi monopolio – in Europa e Stati Uniti, mentre in Cina la realtà è meno rosea – di Facebook. In questo modo, Google avrebbe il know how per competere non solo nel settore dei social network, ma anche con Microsoft.
Sempre nello stesso numero di «Business Week», Larry page fa anche riferimento all’ambizioso progetto di sviluppo di applicazioni e di «fornitura» di contenuti che dovrebbero mettere Google in grado di vedersela con il crescente potere di Apple. Ed è infatti Apple la società che non lascia tranquilli le teste d’uovo di Google. L’ultima versione di iPhone è stato un successo, mettendo in difficoltà Android, che solo recentemente ha risalito la china negli Stati Uniti. Lo stesso sta avvenendo con l’iPad. Tutto ciò sta provocando una migrazione di utenti della Rete verso il cloud computing di Apple, cioè verso quei servizi integrati di applicazioni e contenuti che fanno salire di molto i profitti della società orfana di Steve Jobs.
Appena passati pochi giorni e a prendere la parola è stato Sergej Brin. In una lunga intervista al quotidiano inglese «The Guardian», Brin punta l’indice contro i pericoli della Rete. Con un lessico che potrebbe tranquillamente essere usato da un mediattivsta, il cofondatore di Google se la prende con i tentativi degli Stati nazionali di mettere sotto controllo la Rete e con le industrie dei contenuti che, in una vera e propria politica delle enclosures, stanno facendo pressioni affinché organismi sovranazionali e governi nazionali definiscano leggi sempre più ristrettive sulla proprietà intellettuale, inibendo così le spinte innovative presenti si Internet. E se sulla proprietà intellettuale, non si può che concordare con Brin, maliziosamente, si potrebbe ricordare che Google ha avuto non pochi problemi con il governo statunitense e l’Unione Europea per quanto riguarda la violazione della privacy.
Quello che inoltre colpisce della campagne di pubbliche relazione di Google è di aver scelto gli Stati Uniti e l’Europa come terreno privilegiato. Una ragione tuttavia c’è. Si chiama «crisi», che ha determinato una contrazione dei profitti anche per le imprese che hanno il loro core business nella Rete. Niente di paragonabile con altri settori produttivi, ma anche nell’high-tech ci sono stati licenziamenti, ristrutturazioni e un mercato poco dinamico. Questo aumenta la concorrenza, mentre all’orizzonte si comincia a intravedere sempre più nitidamente l’arrivo in borsa di Facebook (previsto per maggio, autorità di controllo della borsa permettendo), mentre la Cina ha fatto capire che, oltre a tollerare ben poco la presenza di società «occidentali» nel suo territorio, ha tutte le intenzioni per partire alla conquista di mercati fuori dai suoi confini nazionali. Google deve quindi ripristinare l’immagine si impresa innovativa e niente affatto monopolista, come invece viene ripetutamente accusata dai concorrenti. E dai mediattivisti di tutto il mondo. Ma non è detto che la campagna di pubbliche relazioni raggiunga il suo obiettivo. Può infatti produrre un backlasch, svelando inaspettate fragilità di una impresa che vuole diventare la numero uno della Rete.
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