LA GENERAZIONE PIPPI CALZELUNGHE E LA RIVOLUZIONE DELL’IMMAGINARIO

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Ioe La mistica della femminilità  siamo più meno coetanee.

Ma mentre io invecchio con inesorabile regolarità , il saggio di Betty Friedan, giunto intorno al quarantesimo anno di età , torna di nuovo giovanissimo, vitalee seducente. Più di quanto non lo fosse vent’anni fa, ad esempio, quando la mia generazione lo snobbava per motivi estranei al suo contenuto.

Era il 1963 quando questa giovane studiosa americana pubblicò il libro che proponeva i risultati di un test inviato alle sue ex compagne di college (classe 1942) in occasione dei quindici anni dalla laurea. Avrebbe voluto dimostrare che l’istruzione non affievolisce l’istinto maternoe che una donna colta può essere felice anche di essere solo una buona moglie. Sbagliato.

Le risposte che ottenne le rivelarono il contrario: la casalinga americana, regina della villetta col giardino, era disperata, lacerata e incapace di aderire ad un modello di femminilità  che faceva appunto leva su un improbabile e fittizio misticismo.

Non sapendo bene come chiamare quel multiforme dolore, la Friedan lo definisce «the problem that has no name». Un incubo psicosomatico che corrisponde grosso modo a quella che oggi chiamiamo depressione.

Lo stesso anno in cui esce La mistica della femminilità , Silvia Plath, moglie e madre, pubblica un romanzo dal titolo La campana di vetro. Storia di una donna, Esther, dilaniata tra aspirazioni personali e ruolo sociale. Confusa e disperata, cavalca la sua malattia indicibile fino ad esserne disarcionata, fino ai tentativi di suicidio e l’elettrochoc. Un mese dopo l’uscita del libro, la Plath si uccise infilando la testa nel forno, subito dopo aver messo a nanna le sue bambine e aver loro preparato una tazza di latte e pane e burro per la colazione. Nel 1961, era uscito Revolutionary Road, di Richard Yates. La cui protagonista, April, dopo aver trascorso il tempo del suo matrimonio a cercare di definire la smania che la attraversava, e a scontarne la colpa, muore dissanguata nel suo salotto, dopo essersi praticata un aborto dissennato.

Il saggio di Betty Friedan ebbe un successo editoriale enorme, e divenne una pietra miliare del pensiero femminile. Per alcuni anni fu la bibbia dell’emancipazione, l’emersione di un rimosso collettivo, la risposta a un domanda che fino ad allora non si riusciva neanchea formulare. Poi cambia tutto. Il femminismo diventa più radicale, arriva la rivoluzione sessuale, e a ruota la rabbia e la furia distruttiva degli anni Settanta. Jane Birkin e Brigitte Bardot, Kate Millett e Angela Davis, Taxi Driver e The Rocky Horror Picture Show, il punk, il movimento transgender, Janis Joplin… La mia generazione entrava nell’adolescenza e il mondo era una catasta di macerie post qualsiasi cosa. Quelle donne di cui parlava Betty Friedan non ci riguardavano, erano rimaste sepolte dalla storia. Il loro problema era diventare grandi, il nostro rimanere piccole. Siamo cresciute con Pippi Calzelunghe, Heidi, Lady Oscar, decise a non superare la soglia dell’adolescenza per nessuna ragione. Ci commuovevamo per l’innocenza e il candore di Vic, la protagonista de Il tempo delle mele, ci immedesimavamo nei freaks, primo fra tutti il marziano E. T. Prendevamo lo slancio per diventare cattive. Non avremmo mai immaginato che un giorno ci saremmo innamorate di Mad Men. I maschi maschi, le femmine femmine. Avremmo visto Lontano dal paradiso, il film di Todd Haynes, e letto di nuovo e amato Revolutionary Road e Silvia Plath.

In un saggio intitolato Pornotopia (Fandango), Beatriz Preciado, filosofa, spiega che lì, nell’America degli anni Cinquanta, nasce tutto. Che è stato Hugh Hefner, fondatore di Playboy, a plasmare il nostro immaginario erotico e non solo quello. E che è merito suo se siamo riuscite a scappare da quelle gabbie per criceti che erano le villette col giardino. Suo e di Betty Friedan. L’emancipazione della casalinga americana si compie attraverso l’azione congiunta del femminismo e della pornografia. E il punto preciso in cui le due filosofie si congiungono è il tempo in cui viviamo. Quello in cui noi, ex ragazze cattive, siamo diventate donne.


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