La finanza «vota» per continuare il suo gioco di ombre

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Il povero Hollande è la cartina di tornasole di questo clima. Forse tra 15 giorni vince le elezioni in Francia. Forse. Già  questo cambiamento, lui al posto del consolidato Sarkozy, provoca il terrore. Non importa cosa dice ora il candidato socialista; già  il fatto che si possa cambiare interlocutore è fonte di preoccupazione. 
La finanza è tradizionalmente un mondo di umori fragili, ancorati a dati di brevissimo periodo. Un indice mensile di disoccupazione, un indice di propensione al consumo, possono «bruciare» centinaia di miliardi. Figurarsi un cambiamento politico come nel caso del presidente della Francia in questo momento. Proprio ora che il peggio deve venire. Perché a cinque anni dall’inizio della crisi la finanza ha preso tanto, ma averla sostenuta non ha prodotto i risultati sperati. 
Ma quanto ha preso la finanza, quanti aiuti di stato ha ricevuto? Negli Usa, l’amministrazione Obama e quella Bush hanno elargito 7.700 miliardi di dollari meno di quattro anni. La cifra è pari al 50% del Pil americano. Quando l’agenzia Bloomberg ha rivelato il dato nessuno si è sorpreso. Le cifre ufficiose parlavano di una cifra pari ad un terzo, ma a Wall Street si sapeva. Il corso dei titoli è artificiosamente sostenuto da questa immissione di liquidità , senza la quale gli indici azionari sarebbero molto più depressi. 
Ma in America questa liquidità  ha permesso anche di ristrutturare il sistema bancario. Non tutti gli attori e protagonisti della crisi finanziaria sono rimasti in piedi. La liquidazione di circa 500 banche, tra piccole e grandi, ha permesso anche di ripulire il mercato finanziario da prodotti ormai inesigibili. Diciamo che ora quel sistema ha ridotto, non di molto, la zavorra. L’agenzia statale per la ristrutturazione – la Fdic – è stata rifinanziata e continuerà  questa sua azione. Oggi ci sono altre 500 banche che non rispettano i criteri di solvibilità  e saranno avviate alla liquidazione. 
In Europa abbiamo avuto due fasi. Nella prima, le banche hanno ricevuto dagli stati una serie di aiuti per un totale di 2.178 miliardi. Quasi la metà  sono stati restituiti entro giugno 2011. Da agosto le cose sono di nuovo peggiorate. A dicembre i prestiti interbancari – non quelli alle imprese o ai cittadini – erano scesi quasi a zero. La fiducia tra banche era scemata. Si è mossa per prima la Germania, rifinanziando il proprio fondo salvabanche. La Merkel ha messo a disposizione altri 400 miliardi per le banche tedesche. Senza questa immissione la Commerzbank, la seconda banca tedesca, sarebbe fallita. Anche ora non sta molto bene; ben due piani di ristrutturazione, negli ultimi sei mesi, sono stati bocciati, ma continua ad essere operativa. Poi sono arrivati i mille miliardi di Draghi. 
La liquidità  immessa nelle banche europee supera quindi i 2600 miliardi, quasi due anni di Pil italiano. Eppure non c’è giorno che il sistema non scricchioli. Ieri i numeri della Spagna, oggi il povero Hollande, e l’Olanda. Ma anche il caso Germania dovrebbe essere propedeutico. Qui le aziende fanno utili, la Volkswagen è indicata come l’esempio da seguire; eppure senza i quasi 700 miliardi del fondo salvabanche il sistema finanziario non ce la farebbe. 
Colpa dei titoli di stato? Solo in parte. A rivelarlo è l’Irlanda. Qui il sistema bancario è stato salvato con l’immissione di 136 miliardi di euro. Ma da tempo, in cambio di quesat immissione, si è avviata una operazione di pulizia. In accordo con Bruxelles, a piccole dosi, vengono liquidati titoli inesigibili, senza copertura. «A zero», cioè senza rimborsare gli investitori. Oppure con rimborsi simbolici, spesso inferiori al 10% del capitale investito. Una via obbligata per far riprendere operatività  alle banche, che avrebbero dovuto immobilizzare risorse reali per coprire ricchezze fittizie. Perchè se si svalutano i titoli greci o portoghesi c’è purtroppo ben altro da liquidare. Come dimostra la liquidazione di Cds. 
Accesi tempo fa dal governo italiano e liquidati da Monti con una perdita superiore ai due miliardi. Le banche sono piene di queste ricchezze fasulle e senza una loro ristrutturazione l’uscita dalla crisi si fa sempre più dura. Ecco perché «votano». Per la loro sopravvivenza, per il mantenimento della status quo. Con il rischio di creare una lunga agonia del sistema.


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