La fiducia, il rispetto e il talento per svelare l’enigma dell’incontro con l’Altro

Loading

Gli occhi dei gatti racchiudono qualcosa di enigmatico e al tempo stesso di emblematico, per noi. Chissà  se i nostri avranno, per loro, le stesse misteriose, o forse solo ambigue, qualità . Sia come sia, proprio così – emblematica, enigmatica – dovette apparire a Michel de Montaigne la gatta di cui, nell’Apologia di Raymond Sebond, scriveva: «quando gioco con lei, come faccio a sapere che non sia lei che gioca con me?». La domanda, racchiusa in quello che Jacques Derrida definiva uno dei più lucidi e importanti «testi precartesiani e anticartesiani sull’animale», in qualche modo compendia la convinzione che, al fondo della vita dell’altro, gatto o uomo in questo caso poco importa, permanga sempre qualcosa di insondabile, un multiplo legame con una zona liminare del differente da sé, non scalfita né dalla luce della completa differenza, né dall’ombra della seppur parziale identità  da cui viene comunque lambita. 
I passatempo della servitù, la pazienza muta delle cose, una trave di legno su cui incidere le parole di una vita, un ragazzetto a cui insegnare a leggere e da cui apprendere un gioco e infine gli occhi del gatto sono, in Montaigne – forse il più «dialogico» di tutti gli scrittori – incontri d’occasione e fortuiti che aprono all’empatia e, come tante pietre d’inciampo, all’improvviso ci espongono al confronto con qualcuno o qualcosa con cui è anche possibile condividere il piacere di stare insieme. Qualcuno con cui condividere, senza per questo volerlo come noi o, chissà , volerci come lui. Qualcosa verso cui approssimarci, senza forzare, come possiamo approssimarci a noi stessi e alle nostre dissonanze senza per questo illuderci di assimilarle o accordarle troppo a un ego pronto ad andare in mille pezzi alla prima occasione. L’immergersi nelle cose dà  quindi luogo, in Montaigne, in una conversazione attenta, pronta all’ascolto dell’altro, di sé e di quella alterità  inestirpabile che, a dispetto di ogni supposta identità , da sempre abita gli spazi più incerti del sé. 
Nella conclusione del suo Together, secondo volume che fa seguito a The Craftsman nella trilogia dedicata al «Progetto Homo Faber», Richard Sennett, già  autore di libri chiave sulle derive del lavoro nel cosiddetto nuovo capitalismo, porta quindi proprio la gatta descritta da Michel Eyquem duca di Montaigne a esempio di quella cooperazione impegnativa che per lui costituisce traccia e filo, tra un passato e un futuro altrettanto prossimi, sulla quali struttura le quasi trecento pagine del suo ultimo libro. Libro il cui sottotitolo recita «The rituals, pleasures and politics of cooperation» e la cui traduzione italiana di Adriana Bottini opta per la variante «collaborazione», laddove un tedesco avrebbe avuto vita più semplice nel rendere l’inglese «cooperation» con quel lavoro comune che si condensa in un termine di rara densità  semantica, «Zusammenarbeit». Che cosa significa, dunque, cooperare (o collaborare) e perché dovremmo attenerci a questo rituale indebolito, forse troppo indebolito dalla nostra pseudo-modernità ?
Il Ventesimo secolo, osserva Sennett, ha «pervertito la collaborazione in nome della solidarietà ». Nella sua forma perversa questa solidarietà  contrapporrebbe comunque un «io» al «noi», sia nella matrice dell’individualismo – spia indiziaria, osserva Sennett, oltre che di una elementare pulsione personale, anche di una ben più infausta assenza sociale di riti condivisi -, sia quando diventa la «risposta tradizionale della sinistra ai mali del capitalismo». Una risposta che ha di fatto cancellato la cooperazione dalle «strategie di resistenza» dalle opzioni che la lotta ha assunto in un altro contesto, quello di un un capitalismo che giocando la sua ultima carta «sul lavoro a breve termine e sulla frammentazione delle istituzioni» ha realizzando di fatto non il sogno, ma l’incubo di Montaigne, privando i lavoratori della possibilità  di stabilire «relazioni di sostegno reciproco». Oltre a Saul Frampton, che incardina il suo Il gatto di Montaigne (Guanda) partendo proprio dal più compiuto degli Essais, anche Richard Sennett menziona l’episodio della gatta (o del gatto) situandolo «nel cuore stesso» del proprio ambizioso progetto sulle derive del moderno. Se Bruno Latour, a più riprese chiamato in causa da Sennett, aveva le proprie buone ragioni nel sostenere che, nel nostro rapporto con scienza, alterità , tecniche non siamo mai stati moderni, richiamandosi a Montaigne, «primo dei moderni», Sennett precisa: non lo siamo ancora diventati, moderni. In questo «ancora», avverbio non a caso di tempo, è racchiuso tutto il – forse incauto? – ottimismo di Sennett che nella paziente cooperazione tra il nostro sguardo e quello della gatta di Montaigne intravede «potenzialità  umane» anche in una società  dal fiato sempre più corto, messa in scacco dai numeri e da un’esistenza quotidiana dequalificata nella sostanza e desequenzializzata nelle sue forme. Potenzialità  che ognuno può e «deve ancora coltivare». 
Questa potenzialità  configura una modalità  dialogica della relazione che, partendo «dalle cose più terra terra», non esclude il contesto, il margine, l’estraneo, l’incerto. Tutt’altro, proprio la disposizione «condizionale» e non asseverativa del dialogo permette di uscire dal peggiore retaggio di quella che Jakob Burckhardt definiva «un’epoca di brutali banalizzatori». La crisi economica in atto, commenta Sennett, unitamente al diffuso bisogno di «solidarietà », conseguente all’erosione del welfare, ha attualizzato logiche tribali, garantendo una facile divisione decontestualizzata tra «io» e «tu», tra «noi» e «loro». Tutto il contrario del dialogo, che ha bisogno di contesto. Il «contesto dietro la gatta», per Montaigne come per il suo amico Etienne de la Boétie, autore del celebre Discorso sulla servitù volontaria (scritto probabilmente nel 1553, quando aveva poco più di vent’anni), il contesto si diceva è dato da una visione politica «dal basso», senza ingiunzioni, senza asservimenti: libera perché capace di collaborare con chi è altrove e di collaborare con chi è qui, ora, fosse pure rivestito della maschera dello straniero. Come il tavolo immortalato al centro degli Ambasciatori (1533) di Hans Holbein il Giovane è ricolmo di oggetti che ritraggono i mutamenti da poco intervenuti nei laboratori artigiani – oggetti di precisione, la cui fabbricazione e uso modificheranno di molto la pratica della coooperazione tra uomini d’opera e artigiani -, così la gatta diventa un emblema che comunica nuove vie di collaborazione aperte all’alba del moderno. Le comunica a noi, qui – ribadisce l’autore. «Il tavolo rappresenta nuovi modi di fabbricare gli oggetti, la gatta nuove possibilità  di convivenza», prosegue Sennett. Possibilità  che chiosa con molto ottimismo l’autore, sono da allora incise dentro ognuno di noi. Incise, forse, proprio in quel margine incerto dove l’io si spegne e inizia il noi. Là  ove il saper fare le cose quasi coincide con un saperci fare con le cose, con gli altri, con il mondo.


Related Articles

BEATRICE MONTI VON REZZORI

Loading

Aristocratica e mecenate ospita nella sua Fondazione scrittori di tutto il mondo “Ho creato un luogo magico che ha ispirato Chatwin”

 

Benvenuti a Scampia

Loading

“Non mi avrete mai”, la storia di Gaetano Di Vaio, un tempo rapinatore, ora scrittore. “Con i film e con i libri ho riscattato una vita perduta fra droga e galera”

Vita agra di un traduttore

Loading

Tre libri su dieci sono stranieri, bestseller compresi. Ma chi ci permette di leggerli non ha diritti. Malpagati, sfruttati e isolati ecco i sottoproletari dell’editoria

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment