Immagini seriali che svelano il reale

by Editore | 5 Aprile 2012 11:34

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Walter Benjamin considerava la ricezione distratta come una caratteristica decisiva della nuova arte cinematografica; l’opera del regista Aleksandr N. Sokurov potrebbe intendersi – al contrario – come una lotta senza quartiere contro la distrazione, prodotta dal flusso fascinatorio e ipnotico del cinema spettacolare. I film del regista russo richiedono una inedita presenza di spirito da parte dello spettatore, inquietato da immagini discontinue, segnate da una specificità  irriducibile, attraversate da linguaggi discordi. Sokurov pone costantemente a confronto il movimento labile dei gesti e dei raccordi, che compongono un «piano» cinematografico, con la durata e la consistenza dell’antica immagine figurativa. È come se la contemplazione – il lento calarsi dell’attenzione entro lo spazio immaginario e immutabile di un quadro – dovesse ora esercitarsi sul terreno ad essa inadatto ed ostile dell’inquadratura: applicarsi a ciò che comunque e inevitabilmente è destinato a sfuggire allo sguardo e a dissolversi nel tempo. Questo paradosso o conflitto permanente della percezione inquieta lo spettatore come una nota dissonante e perturbante, e distrugge ogni forma di passiva identificazione con le immagini.

Il fondo della scena
Il tempo dell’inquadratura può rallentare in Sokurov fino al limite dell’arresto (senza mai poterlo realmente raggiungere): dall’azione quasi sospesa, dal divenire quasi interrotto, nasce l’immagine-quadro caratteristica del suo cinema. Oppure il regista ricorre a un procedimento apparentemente opposto: fotografie e opere figurative sono attraversate e – per così dire – riportate in vita dal movimento della macchina da presa: «Il cinema di Sokurov tende a modificare la registrazione mimetica del paesaggio, per ridipingerlo con le modalità  di un quadro, “abitato” dallo sguardo del cineasta».
Forse l’esempio estremo di immagine-quadro è il primo episodio di Voci dello spirito. Per più di quaranta minuti è inquadrato in piano fisso lo stesso aspro paesaggio, mentre la voce fuori campo racconta la vita di Mozart e udiamo brani della sua musica (e poi di Messiaen e Beethoven). La nostra attenzione è subito chiamata a disporsi in modo inconsueto: non c’è alcuna azione da seguire, non si nota nessun nesso causale tra l’immagine e l’accompagnamento musicale. La relazione tra il suono e il visibile è di natura più indiretta e profonda: come la melodia di Mozart è indissolubilmente legata allo scorrere del tempo, così, nel paesaggio apparentemente immobile, in realtà  ogni attimo introduce una variazione quasi impercettibile dello spazio. La sospensione dell’inquadratura intensifica il rilievo di movimenti molecolari, che sfuggirebbero alla percezione abituale: modulazioni della luce, improvvisi voli di uccelli nel cielo, un uomo che attraversa lentamente il fondo della scena. Sembra che la ripresa avvenga in tempo reale, ma è un’illusione; in realtà  il regista sovrappone colori e micromovimenti come un pittore dispone le pennellate sulla tela. L’arresto dell’immagine simula l’immobilità  di un dipinto, ma lo scorrere lentissimo e costruito dei movimenti interni a quell’immagine mostra il tempo che la anima, oltre a costringere su di esso la nostra attenzione. Ogni singolo fenomeno acquista un’intensità  inaudita, mentre nello scorrere rapido di una narrazione resterebbe pressoché invisibile e dimenticato nel fluire delle azioni.
L’immagine-quadro inquieta l’attenzione dello spettatore, abituato a perdersi nell’effimero flusso delle immagini del cinema spettacolare, nella sua visibilità  immateriale e senza peso. L’arresto tendenziale del movimento gli impone un rallentamento dell’attenzione e lo spinge a considerare la profondità  singolare del fenomeno, invece di trascorrere immediatamente ad altro, annientando la sua specificità . Tale arresto è tuttavia paradossale e porta in effetti a percepire il passare infinitesimale del tempo, il suo inerire a ogni esperienza e a ogni spazio. Non senza sofferenza, lo spettatore deve distogliere la sua attenzione da ciò che segue all’inquadratura presente e concentrarsi su quanto avviene in essa e sta passando nell’attimo; del resto, egli può cogliere tale istante solo come già  trascorso, sia pure per una frazione minima. Più che la presenza stessa, diviene visibile il suo divenire, la sua sospensione indecisa tra il futuro e il passato. Questa intuizione metafisica corrisponde a una visione storica e politica. Se i totalitarismi del Novecento tendono a irrigidire la storia in un presente statico e inamovibile, se la forma di merce dissolve l’esperienza in una inconsistenza immaginaria e immateriale, l’immagine-quadro riscopre nel singolo fenomeno la densità  della memoria e l’apertura del possibile. Al tempo omogeneo e vuoto della modernità , essa oppone l’intensità  contraddittoria e irripetibile di un’esperienza spazio-temporale determinata…
L’immagine-quadro racchiude la tensione di un quasi-presente, attimo che trascorre, desiderato e inafferrabile. Essa manifesta la presenza sensibile di una realtà  che tuttavia ci sfugge. L’immagine si sgrana, si smaterializza, come una pellicola che brucia o un paesaggio in cui i contorni smuoiono nella nebbia; la prospettiva centrale si deforma allusivamente, forzata spesso da grandangoli estremi: il visibile diviene traccia o rinvio a un «altro», a un non essere ancora o non essere più, che pure abita nella sua intima profondità , ne costituisce lo strato nascosto e segreto. Così appaiono le figure delle anime, intervistate in Elegia orientale: la morte e il non essere non hanno cancellato il loro aspetto umano, semplicemente ne hanno sgranato i contorni. Ogni tratto del viso o del corpo è colto nel mutamento che lo porta oltre il suo stato attuale, nella sua impermanenza: i morti sono sereni perché hanno accettato questa condizione dell’essere, non lottano più contro di essa, non affermano più il loro Io contro la metamorfosi della vita. Come nelle ultime opere di Monet, la figura è colta nell’attimo originante che la compone e simultaneamente già  la inclina al nulla, mentre un’altra già  accenna a riformarsi sullo sfondo.

Presenze mummificate
Sokurov crea un rapporto dinamico tra immagine fotografica e inquadratura filmica. Di per sé la fotografia rinvia a una figura del passato; con la sua potenza mimetica essa crea un simulacro di presenza, ma in realtà  l’evento o l’esistenza raffigurati non vivono più, sono irrevocabilmente trascorsi. Come aveva notato Bazin, essa garantisce una sopravvivenza in certo senso mummificata, «presente inquietante di vite arrestate nella loro durata». L’essere passato del presente è la base ontologica della fotografia, il grado zero necessario del suo linguaggio.
Con un procedimento simile a quello che si usa per la pittura, Sokurov porta alcune inquadrature al limite della fissità  fotografica, in lunghissimi piani sequenza che, nel colore e nella disposizione, rievocano una istantanea in bianco e nero o virata in seppia. Se il cinema simula – a differenza della fotografia – una presenza animata e vitale, questa illusione viene drasticamente smentita: del resto, la mia percezione non è mai simultanea all’attimo del movimento che corre sotto i miei occhi, ma già  sempre – e sia pure di poco – in ritardo su di esso. L’azione si compone sempre come ricordo, che rinvia all’appena trascorso. È quanto vuole evidenziare il lungo piano sequenza che, in Elegia sovietica, inquadra il volto di Eltsin, una quasi-fotografia che esprime intensamente la sua appartenenza al passato. Poco prima abbiamo assistito alla sfilata delle foto celebrative dei burocrati che nel corso del Novecento hanno governato l’Unione Sovietica. In questo caso, non è difficile associare all’accentuazione malinconica della fissità  fotografica un giudizio negativo su un esperimento politico interamente fallito.
Può avvenire l’inverso: un documento fotografico d’archivio, dimenticato e ignoto, viene riattualizzato e un movimento inedito sembra animarne le figure, con carrelli, zoom, panoramiche, che fanno della foto una quasi-sequenza cinematografica. È quanto avviene con le istantanee di contadini dell’epoca zarista in Elegia dalla Russia o con quelle del secondo conflitto mondiale in E nulla più. Sokurov sottolinea allora il non morire del passato, il suo ripresentarsi in una memoria vivente, che ricostruisce un legame con gli esseri anonimi e dimenticati del documento fotografico. Il movimento della macchina da presa estrae figure viventi dal nulla del tempo. In Elegia dalla Russia i volti dimenticati degli umili riacquistano individualità , iniziano un dialogo immaginario tra loro grazie a una serie di campo-controcampo, rispondono al nostro sguardo: ci rivolgono una preghiera di riconoscimento, che li salvi dall’oblio.
Una tale decostruzione dei materiali documentari ricorda in parte la metafora della lastra fotografica, con cui Benjamin raffigurava il lavoro dello storico critico. Del passato ci restano immagini latenti, «negativi» che l’osservatore presente può «sviluppare» e portare a visibilità . Nessuna fotografia possiede una datità  inalterabile, ma ad ogni stampa può essere diversamente inquadrata e subire una indefinita variazione di toni. 

Visibili assenze
Qualcosa di simile avviene nel passaggio ulteriore dal documento visivo alla sua rielaborazione cinematografica, operata da Sokurov. Non è che lo sguardo presente inventi qualcosa che assolutamente non c’era nel dato di partenza; ma – in base al suo punto di vista e all’urgenza del suo interesse attuale – presentifica aspetti e possibilità  fino a quel momento invisibili.
L’elegia – con questo termine Sokurov titola molti dei suoi film – si riferisce a un essere scomparso o in via di sparizione; la nostalgia per ciò che è perduto si unisce al desiderio di conservarne memoria. L’elegia evoca la mancanza dell’essere amato e la speranza che il suo ricordo non si perda nel nulla e si conservi per tempi migliori. I film di Sokurov mostrano il dissolvimento dell’intera tradizione culturale europea, del più semplice tessuto d’esperienza, della capacità  di raccontare e tramandare: tutto soccombe all’energia distruttiva del totalitarismo e della mercificazione. A proposito dello scrittore Platonov, che ha ispirato il film La voce solitaria dell’uomo, egli afferma: «Platonov è l’artista della vita flebile con una luce vaga, diffusa, che solo gli occhi dello spirito riescono a vedere. Con un lenzuolo bianco e la neve caduta per strada egli crea dei giochi di prestigio che raccolgono e trasmettono quella poca energia diffusa, la platonoviana “luce della vita”, affinché non vada perduta. Nel suo mondo Platonov genera un’illuminazione interessante, purificando e liberando la luce “pulita e mite”, solitamente dimenticata e affiochita, della vita più nascosta». A un’esistenza fioca e dimenticata si rivolgono le elegie di Sokurov, cercando di redimerla dall’oblio. Dalla tensione fra malinconia e memoria derivano le più intense immagini-tempo del regista russo.

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