IL RIFORMISMO DELLA DEMOCRAZIA

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Ma la soddisfazione del presidente del Consiglio è comprensibile. In poco più di due mesi, il suo governo è riuscito dove sette governi precedenti avevano fallito in poco meno di vent’anni. Il definitivo via libera al testo del disegno di legge, ottenuto con la mediazione della maggioranza tripartita e la non-opposizione della Triplice sindacale, è un traguardo ad alta intensità  politica, anche se ad incerto impatto economico. Un primo passo avanti sulla via di una modernizzazione ancora troppo lontana, e di un Welfare ancora troppo povero. Quella del metodo concertativo, che può anche prescindere dall’assenso preventivo delle parti sociali, ma riconosce come valore la coesione nazionale. Monti ha avuto il merito di non farsi imprigionare dall’algida camicia di forza del tecnico, che vive e opera nel vuoto della statica professorale e della meccanica mercatista, senza curarsi della dinamica sociale e della logica politica. Ha avuto l’intelligenza di ascoltare e il coraggio di correggere la sua impostazione iniziale, su un tema cruciale e non solo simbolico come l’articolo 18 che, piaccia o no ai liberisti un tanto al chilo, chiama in causa i diritti del lavoro grazie ai quali un individuo diventa un cittadino. L’esito non era affatto scontato. La zavorra ideologica con la quale era stata caricata la questione dei licenziamenti rischiava di trascinare nel gorgo l’intera riforma. Azzerando e annullando anche tutto quello che c’era di buono. L’avvio di una lotta al drammatico dualismo occupazionale, che vede padri protetti e figli senza tutele. L’inizio di una guerra senza quartiere all’apartheid del precariato, con l’incentivo a recuperare la centralità  del contratti a tempo indeterminato e il disincentivo ad abusare dei co. co. pro e delle finte partite Iva. 
La riscrittura dell’articolo 18, nella prima versione annunciata dal governo il 21 marzo scorso, era inaccettabile perché ingiusta. Introduceva una disparità  clamorosa tra il diritto dell’azienda a licenziare e quello del lavoratore a non essere licenziato. Declinava in modo del tutto arbitrario le forme di tutela, escludendo a priori quella «reale» del reintegro nei licenziamenti illegittimi per motivi economici. Impuntarsi su questa ingiustizia sociale, e impiccarsi a questa antinomia giuridica, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l’esistenza dell’intero provvedimento (oltre che la vita dello stesso governo). Monti l’ha capito, e ha modificato la norma prima ancora di trasmettere il disegno di legge al presidente della Repubblica. Un atto di responsabilità , oltre che di equità . Il compromesso finale è accettabile, anche se per una valutazione oggettiva occorrerà  leggere il testo del provvedimento per chiarirne i punti ancora sospesi, a partire dall’onere della prova nel «nuovo» processo del lavoro. 
Bersani ha avuto il merito di dar voce a questo bisogno di giustizia sociale, intestandoselo fino in fondo e a prescindere dalla battaglia di Susanna Camusso. È riuscito a convincere il premier a reintrodurre l’istituto del reintegro e a dare più poteri al giudice nell’accertamento della manifesta insussistenza o infondatezza del licenziamento economico. Soprattutto, è riuscito a tenere unito il Pd, su una posizione critica ma costruttiva perché propositiva. Non si è lasciato attraversare dalla faglia socialdemocratica interna al partito né stritolare nella cinghia di trasmissione al contrario rispetto alla Cgil. Anche questo esito non era affatto scontato. La prospettiva di un’implosione del Pd, dilaniato tra le due anime del socialismo europeo e del cattolicesimo democratico, era tutt’altro che irrealistica. Il segretario, questa volta, è riuscito a scongiurarla, proprio sulla frontiera più calda per l’intera sinistra. Il partito ha retto, su una linea progressista e riformista. E proprio questa è stata la chiave per convincere Monti a cedere e costringere Alfano e Casini a negoziare, senza contropartite di altra natura sul piano economico (come la flessibilità  totale in entrata) e «contro-natura» sul piano politico (come la giustizia e la Rai). 
Chi sicuramente ha perso, in questa partita ad alto rischio, è la nutrita schiera degli schumpeteriani d’accatto che, attraverso la mistica della «distruzione creatrice» del capitale, puntavano a consumare la loro vendetta ideologica e post-novecentesca contro il lavoro, e quindi contro la sinistra e il sindacato. Lo stormo dei falchi pidiellini che puntavano ad annettere Monti alla destra berlusconiana, che citavano a sproposito Giacomo Brodolini e Marco Biagi, che evocavano il decreto di San Valentino dell’84 e il titolo dell’Avanti nel primo centrosinistra del ‘63: «Da oggi ognuno è più libero». Purtroppo non fu vero allora. Per fortuna non è vero oggi, almeno sul versante della libertà  di licenziare. L’operazione revanchista non è riuscita. Cgil, Cisl e Uil, recuperando un accettabile livello di unità  sindacale, hanno respinto l’attacco, dimostrando che la loro «resistenza» era mirata alla collaborazione e non alla conservazione.
Ora la riforma può attraversare in fretta e senza danni l’iter parlamentare. Anche questo è un valore aggiunto, come ha spiegato il premier: dopo la manovra anti-deficit, la stretta sulle pensioni e le liberalizzazioni, il fattore tempo nell’approvazione della legge sul lavoro conta quasi quanto il suo contenuto. Tuttavia, incassato il dividendo politico della riforma, quello che manca è ancora e sempre il dividendo economico. Affermare che questa legge servirà  «a creare posti di lavoro e a rilanciare la crescita», come hanno sostenuto il presidente del Consiglio e il ministro Fornero, è purtroppo velleitario, per non dire illusorio. In un ciclo di recessione acuta, questa riforma non basterà  a sostenere l’occupazione e a rilanciare il Pil. Tra l’altro, con un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche attive per il lavoro finanziati con poco più di 1,7 miliardi non si va lontano. 
Lo sviluppo economico è altrove. E questa è la missione che tocca al governo, ora che l’»alibi» dell’articolo 18 è stato rimosso, portandosi via il grumo di polemiche e di risentimenti che da sempre lo accompagnavano. Aspettiamo (con pochissima fiducia) l’invasione delle multinazionali straniere, finalmente pronte a investire in un’Italia più «flessibile». Proprio nel giorno della riforma «di rilievo storico», colpisce un’altra notizia: la Danieli, colosso della siderurgia italiana, annuncia un gigantesco piano di investimenti in Serbia. Ed elenca i motivi che la inducono a non scommettere sull’Italia: nell’ordine, «costo delle materie prime, costo della manodopera, scarsità  di tecnici e ingegneri, cuneo fiscale e scarsa competitività  del Sistema-Paese». La rigidità  del mercato del lavoro «in uscita» non figura nell’elenco. Come sostiene il ministro Fornero, «l’articolo 18 è stata una grande conquista, ma il mondo è cambiato». Come dimostra il caso Danieli, il vero tabù italiano non è l’articolo 18 che c’era, ma la crescita che non c’è.
Come sempre, in questi casi si redige la lista dei vincitori e i vinti. Mai come stavolta ha vinto il riformismo. La pratica più difficile, ma più promettente. Quella della democrazia, che comporta la fatica del confronto, se serve dello scontro, e che alla fine decide senza rinunciare per principio alla ricerca del consenso. Quella del buonsenso governante, che respinge i veti ma sa ricomporre i conflitti in quello che una volta si sarebbe definito «un equilibrio più avanzato».


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